Nel mio nuovo libro, “Abbiamo toccato le stelle”, racconto venti storie di campionesse e  campioni capaci di andare oltre lo sport per segnare la vita di tutti gli esseri umani con le loro lotte, la loro passione, la loro dedizione.
Lo sport, così, diventa un modo per parlare di discriminazione razziale e sessuale, di disabilità, dittature.
E anche di migranti.
Già, migranti, questo tema così attuale discusso che sempre viene discusso in termini di numeri.
Numeri di migranti arrivati o da respingere.
Numeri da dividere, sommare, aggiungere.
Numeri di morti, anche.
Per esempio nel 2016 i morti in mare erano 5.000, arrotondando. Del resto, su certi ordini di grandezza, mica vai per il sottile.
L’anno prima, nel 2015, mentre la Siria viveva il dramma della guerra civile, si era toccato il numero massimo di persone che cercavano di raggiungere l’Europa, una cifra stimata vicina al milione di viaggiatori, difficile persino contarla.
Uno di quei migranti, uno di quei numeri, è una ragazza di nemmeno 18 anni: si chiama Yusra Mardini e ha deciso di lasciare la Siria, per arrivare in Europa, in Germania.
Eppure solo tre anni prima, nel 2012, ha partecipato ai Mondiali di nuoto in vasca corta e si è candidata a diventare una delle migliori nuotatrici siriane. Una speranza per le Olimpiadi di Rio 2016.
Yusra è cresciuta in una famiglia benestante, è giovane, fa sport, studia, parla un inglese fluente.


Poi è arrivata la guerra, le bombe in piscina, la povertà di chi ha perso tutto.
“A volte non potevo allenarmi, a volte arrivavano bombe dentro la piscina. Il soffitto aveva i buchi. Un sacco di sportivi e specialmente i giocatori di calcio, sono morti sotto i bombardamenti”.
Yusra, con la sorella Sarah, decide di scappare verso l’Europa, attraversando Libano e poi la Turchia, dove ha nuotato per il suo paese.
Yusra Mardini non è più la futura campionessa del nuoto, ma una dei tantissimi migranti che vediamo in tv, in cerca dell’Europa.
Un numero fra migliaia.
Le sorella Mardini pagano gli scafisti per salire su un gommone diretto all’isola greca di Lesbo, insieme ad altri disperati in fuga, molti dei quali bambini.
Il gommone è piccolo, ma sopra sono in venti.
“Sono solo 45 minuti di navigazione”, dicono gli scafisti.
Ma, dopo 15 minuti, il motore si blocca e inizia ad andare a singhiozzo.
La barca, senza motore, è troppo pesante, imbarca acqua. I viaggiatori gettano in mare i bagagli, ma non basta: l’imbarcazione affonderà, se non si libera di altro peso.
Quasi nessuno sa nuotare, i bambini piangono, le persone pregano.
Yusra cerca di sorridere e rassicurare tutti, specialmente i più piccoli, ma deve fare qualcosa, sennò annegheranno tutti.
Allora Yusra, Sarah e due uomini che sanno nuotare prendono l’unica decisione possibile: si tuffano nelle acque del Mar Egeo per scaricare peso e rimangono lì, nel buio, attaccati al gommone che smette di imbarcare acqua.
Yusra e Sarah, le più allenate e forti di tutti, diventano motori umani umani, spingendo la barca.
Nuotano per tre o ore e mezzo di notte, percorrendo quasi cinque chilometri di mare. Se fossero in piscina sarebbero 200 vasche, ma chiudete gli occhi e provate a immaginare questa scena: sono in mare, di notte, attaccate a un gommane senza motore, l’acqua è fredda e buia, la gente piange.
“Mi è passata tutta la vita davanti agli occhi. Potevo morire, in quel viaggio, ma del resto ero quasi morta anche in Siria. Ho odiato quel tratto di mare, ma come nuotatrice sarebbe stato uno scandalo morire affogata”.
Alla fine, mentre sorge il sole, il gommone tocca terra in Grecia, Yusra e Sarah sono salve, insieme a tutto il carico del gommone, insieme ai bambini.
A piedi, viaggiando per 25 giorni, le sorelle Mardini arrivano in Germania, accolte in un campo profughi.
Ottengono la status di “rifugiate”, raccontano della loro vita precedente e così tornano a nuotare in piscina, senza rischiare di morire e Yusra, in particolare, migliora le sue prestazioni.
Yusra non può più nuotare per la Siria, stato devastato dal conflitto, ma quando viene annunciato che sarà iscritta una squadra che rappresenti i rifugiati, si candida insieme ad altri quarantatré atleti.
Viene selezionata, con altri 9 atleti. Non possono difendere le bandiere dei loro paesi e allora, durante la cerimonia di inaugurazione, sfilano sotto la bandiera con i cinque cerchi olimpici, subito prima del Brasile, paese ospitante.
Sfilano sorridendo in mezzo a campioni di tutto il mondo.
Se guardate il video, vedete anche lei, la più giovane di tutti.

Yusra ha gareggiato, ma non ha vinto nulla, alle Olimpiadi di Rio.
Non era questo il suo obiettivo, non poteva esserlo.
Il suo obiettivo era esserci e stare in vasca .
Comunque ha vinto la sua batteria, nei 100 metri farfalla, con il rispettabile tempo di  1’09’’21, undici secondi più lenta di quanto sarebbe servito per arrivare in semifinale. Non male per una ragazzina di poco più di 18 anni rimasta ferma per mesi a causa della guerra.

Il suo nuovo obiettivo, ora, è ripresentarsi competitiva ai prossimi giochi olimpici del 2020, che si terranno a Tokyo.
Ma, adesso, per questa ragazza non c’è solo lo sport.
Yusra ha raccontato la sua storia in un libro intitolato “Butterfly”, è diventata Ambasciatore per l’Alto Commissariato per i Rifugiati, ha incontrato il Papa, ha parlato a New York davanti alle Nazioni Unite ed è stata la più giovane partecipante al Forum Mondiale dell’Economia, a Davos, in Svizzera, raccontando la sua esperienza davanti al mondo.
“Questo è il mio appello a tutti noi, per prendere posizione adesso, insieme, sotto il nome che dividiamo: rifugiati. Io sono Yusra. Sono una rifugiata. E sono fiera di lottare per la pace, il decoro e la dignità di quanti fuggono via dalla violenza”.
Sì, possiamo dirlo senza paura di sbagliare, Yusra Mardini non è solo un numero.

La sua storia, raccontata in modo più completo e dando ancora più spazio alle sue parole, la trovate nel mio libro “Abbiamo toccato le stelle”, insieme ad altre vicende di atleti e atleti che hanno dovuto lottare contro discriminazioni razziali, sessuali e di genere, che si sono battuti contro la disabilità e l’emarginazione, contro odio e dittature.
Campionesse come Kathrine Switzer, prima atleta a infrangere il tabù che impediva alle donne di correre una maratona o atleti come Peter Norman, corridore bianco che sostenne la protesta dei campioni neri Smith e Carlos, a Messico 1968, pagando carissima quella scelta.
Uomini e donne che hanno unito la forza sportiva al loro coraggio di esseri umani.
Un libro per ragazzi e adulti, un modo diverso per raccontare la complessità della vita attraverso lo sport.

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