Quando gli sventurati che arrivavano ad Auschwitz  trovavano il dottor Josef Mengele ad attenderli, il loro destino poteva imboccare tre direzioni, tutte tragiche: la via per la camere a gas dove morire subito, quella per le baracche dove diventare schiavi destinati a morire di lavoro oppure la strada per lo “studio medico” cui erano avviate le cavie destinate a Mengele e agli altri medici del campo.
Mengele, nello specifico, aveva due lauree e per mentore un professore di eugenetica il quale lo aveva spinto a farsi assegnare ad Auschwitz: il lager era un terreno di studio incredibile, con tutte quelle persone cui poter attingere.
Il “dottor” Mengele godeva di una speciale dispensa per prelevare tutti i deportati che riteneva utile sfruttare per i suoi presunti studi che per lo più sconfinavano in orridi esperimenti sui gemelli, sui rom, sulle persone affette da deformità di ogni genere.
Cercò di provare tare razziali in razze che esistevano solo nella sua testa e nessuno dei suoi studi condusse a un risultato scientifico degno di nota, ma solo a morti cagionate dopo orribili sofferenze, spesso uccidendo i malcapitati con una puntura dritta nel cuore, alla fine dei patimenti.
Gestì anche le epidemie interne, sempre con sprezzo della vita umana: per estirparle ricorse all’eliminazione immediata dei contagiati.


Quando la Germania vide stagliarsi la sconfitta, Mengele fu arrestato. Ma i suoi carcerieri non lo identificarono per un motivo banale: non aveva il tatuaggio degli ufficiali delle SS all’interno del braccio sinistro. Non è chiaro se fosse per caso o se avesse trovato il modo di assentarsi al momento in cui tatuavano i suoi commilitoni. A ogni modo, quando fu arrestato, poté celare abbastanza facilmente la sua identità, spacciarsi per un soldato qualsiasi e farsi rilasciare.
Andò così a Gunzburg,  sua cittadina natale, dove stranamente nessuno lo riconobbe, vicino di casa o abitante che fosse. E questo nonostante suo padre Karl fosse un celebre imprenditore proprietario di una ditta di macchine agricole che dava il lavoro a moltissimi concittadini e il viso di suo figlio fosse ben noto a tutti.
Ma nessuno aveva voglia di inimicarsi i Mengele.
Quando, però, i processi ai criminali del Reich iniziarono a sancire condanne capitali e il nome del medico di Auschwitz prese a circolare sempre più forte fra i sopravvissuti, Mengele capì che era tempo di partire per Genova dove imbarcarsi per l’Argentina.
Come il responsabile dell’Ufficio Affari Ebraici Adolf Eichmann, anche Mengele riuscì a scappare grazie a un documento italiano (gentilmente fornito dal comune di Termeno) e a un passaporto internazionale (gentilmente agevolato da sacerdoti cattolici di stanza a Genova).

Nel capoluogo ligure viene di nuovo arrestato, perché i suoi documenti falsi hanno un errore di date e lui cerca di corrompere un funzionario.
Ma la rete che lo sostiene trova il modo di liberarlo e farlo imbarcare.
Partì con poche cose, ma in borsa molti campioni di sangue salvati fuggendo da Auschwitz che gli crearono qualche problema a Buenos Aires, quando i funzionari della dogana si stupirono che il meccanico altoatesino Helmut Gregor avesse tutti quei flaconi e tanti appunti scritti fitti, al seguito.
Eppure se la sfangò, come se l’era sfangata a Genova, arrestato per il tentativo di corruzione di un funzionario italiano, ma liberato grazie ai contatti che lavoravano per la sua fuga.
In Argentina, coi soldi di famiglia, si diede alla bella vita.
Girava in coupé e si risposò con la vedova di uno dei fratelli, aiutando gli affari del padre che vendeva macchine agricole anche in Sudamerica.
Aprì pure una fabbrica che produceva giocattoli, per bambini.
Riprese a usare il suo vero nome e tornò in segreto a esercitare la medicina per praticare aborti clandestini, ma quando perse una paziente durante un intervento, fu arrestato, ancora.
Di nuovo, la potenza dei suoi contatti e dei soldi della sua famiglia lo salvò.
Ma quando Adolf Eichmann fu arrestato dal Mossad, nel 1960, tutto si complicò.
Spaventato, prima andò in Paraguay, aiutato dalla dittatura, ma dovette riparare in Brasile, braccato dal Mossad che cercava di arrestare anche lui.
L’agente Zvi Aharoni, l’uomo che aveva arrestato Eichmann, lo individuò nella foresta amazzonica, ma quando lo ebbe davanti Mengele era scortato.
Rinviò la cattura, ma – richiamato in patria per un’altra missione – dovette infine desistere.
Non so se l’essere scampato fu una fortuna, per Mengele, dato come andò a finire.
Si trovò a gestire una fazenda nella foresta per conto di una coppia che lo ospitava e lo odiava cordialmente mentre la sua seconda moglie era ormai era in pianta stabile in Europa e il figlio naturale anche.
Era solo e destinato a restarlo per sempre.
Dopo che lo ebbero sfruttato per anni, chiedendogli senza sosta denaro per non liberarsi di lui o denunciarlo, i coniugi cacciarono di casa un Mengele ormai già anziano.
La Germania gli aveva anche revocato le lauree, equiparandolo a un ciarlatano, la peggiore ferita.
Finì a vivere solo e mezzo malato, si innamorò di una giovane che era una sorte di badante, ma non poté sposarla per la mancanza di documenti adeguati.
Lei, così, sposò un altro e non volle più saperne di lui.
Malato, solo, con manie di persecuzione e tracce di disturbi psichiatrici, vivendo in un quartiere povero e sporco, Mengele riuscì a convincere il solo figlio naturale Rolf a fargli visita.
L’uomo ci andò, sperando di trovare con qualche traccia di rimorso nel padre per il suo passato.
Non fu così: in quel vecchio solo e rancoroso e depresso che viveva in estrema povertà immerso nelle sue stesse urine, non c’era traccia alcuna di rimorso.
Il figlio decise di abbandonarlo al suo destino e non rispose più alle sue lettere. Mengele dovette sapere da altri di essere diventato nonno.
Mengele morì al mare, annegato dopo aver subito un infarto mentre nuotava; fu sepolto sotto il falso nome Helmut Gregor che usava in Brasile.
Nel 1985 gli investigatori che ancora lo cercavano vivo, ne hanno scoperto la sepoltura.
Un esame del DNA, nel 1992, ha confermato che i resti erano di Mengele grazie al riscontro di una frattura al bacino che si era cagionato cadendo in moto ad Auschwitz.
Dal 2017 i resti sono a disposizione degli allievi dell’università di Medicina di San Paolo, che utilizzano le ossa di Mengele come sussidio didattico.
“Saranno utili a insegnare come esaminare i resti di un individuo e ad abbinare le informazioni con i dati riportati nel documenti della persona” ha dichiarato il professore che ha avuto l’idea.
Ma i resti sono anche un monito per ricordare ciò che nessun medico dovrebbe mai diventare, in un perfetto contrappasso per contrasto.
La leggenda del latitante imprendibile, dunque, è vera solo per quanto attiene la mancata condanna da un tribunale di uomini, ma la fine di Mengele è quella di un uomo vissuto nell’odio e al servizio della morte che finisce a morire solo, esecrato da tutti e abbandonato anche dalla famiglia, ridotto a un’ombra fallita che nulla aveva a che vedere con il feroce ufficiale medico che aveva creduto di essere Dio.
E aveva perso.

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Io sono Riccardo Gazzaniga e conosco questa storia perché il mio ultimo romanzo “In forma di essere umano” (RIZZOLI) racconta fuga e cattura di Adolf Eichmann, responsabile dell’Ufficio Affari Ebraici del Reich.
Ho raccontato invece la storia della fuga in sudamerica di Mengele, Priebke, Barbie e dello stesso Mengele nel podcast gratuito “Ratline – la fuga dei nazisti” che si puo ascoltare gratuitamente su Raiplaysound a questo link: https://www.raiplaysound.it/ricerca.html?q=ratline

 

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