In “La zona di interesse”, film di Jonathan Glazer tratto da un romanzo di Martin Amis e candidato all’Oscar 2024, il fulcro della pellicola non sono tanto le persone quanto il luogo che esse abitano ovvero la casa di Rudolf Höß.
Höß è il comandante di Auschwitz che risiedeva, appunto, nella “zona di interesse” ovvero l’area di sicurezza di 40 km quadrati intorno al campo di cui fu comandante per 5 anni, dal 1940 al 1945, con la sola interruzione di pochi mesi a inizio del 1944.
Lì sorgeva la casa grigia dove abitava Höß con la moglie Hedwig, tre figlie e due figli.
Dal suo ufficio al secondo piano il comandante vedeva l’ingresso alle camere a gas.
La casa era questa.

 

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Era un’abitazione quasi lussuosa per l’epoca, quel­la villa a due piani ad Auschwitz con praticello, piscina, scivolo per i ragazzi e quadrato di sabbia dove farli giocare, due bagni, uno bianco e uno verde, il riscaldamento centralizzato, il tetto spiovente e gli abbaini voluti direttamente dagli Höß spianando il tetto piatto pre-esistente.
Hedwig ci organizzava feste e ricevimenti di donne con permanenti e abiti eleganti.
Aveva un giardino che presentava sempre un problema cronico: la presenza di polvere nera residuo dai forni e allora Höß utilizzava deportati per pulirla, un dettaglio insistito nella sua autobiografia “Comandante ad Auschwitz” che nel film entra di soppiatto.
La famiglia era felice, lo racconta lo stesso Höß:

Ogni desiderio di mia moglie o dei bambini era esaudito. I bam­bini vivevano liberi e all’aperto, e mia moglie aveva il lusso di un giardino fiorito che era un vero paradiso. I prigionieri facevano di tutto per compiacere lei e i bambini, per usar loro delle cortesie. Del resto, nessun prigioniero potrebbe affermare di essere stato minima­mente maltrattato a casa mia. Mia moglie avrebbe regalato volen­tieri qualcosa a ogni prigioniero che faceva un lavoro a casa nostra e i bambini erano sempre a mendicare sigarette per loro. Volevano bene soprattutto ai giardinieri, dato anche il grande amore che tutta la nostra famiglia nutriva per la campagna e in particolare per gli animali.

Il comandante di Auschwitz viveva bene, fin troppo.
Sembra che lui e i suoi ufficiali, al campo, arraffassero derrate alimentari e gioielli. Che Höß non si limitasse a usare prigionieri per le pulizie di casa, ma anche per farsi costruire mobili su misu­ra, che la moglie Hedwig sfruttasse un artista internato come designer della villetta e si avvalesse di internati Testimoni di Geova per tenere i figli.
Soprattutto si mormorava che il Comandante avesse per amante un’internata cecoslovacca reclusa per motivi politici che a un certo punto – non potendola eliminare sommariamente e senza tracce in quanto ariana – avrebbe cercato di lasciar morire di stenti per liberarsi sia del sospetto di tradimento che di quello di aver ucciso l’amante.
Per questi motivi Höss fu sottoposto a indagine e temporaneamente allontanato dal comando, ma presto tornò ad Auschwitz, dato che era considerato eccezionale nella gestione del campo e nell’implementazione della catena di morte.
Fu lui a “brevettare” il terribile Zycklon B, impiegato poi in molti lager per gasare le persone.
(In realtà il termine gasare è sbagliato, dato che lo Zycklon B era un antiparassitario agricolo in forma di “sassolini” che  una volta fatti cadere nella camera a gas e a contatto con l’aria  liberavano nell’aria il loro contenuto letale uccidendo tra i 3 e i 15 minuti).
Höß accolse con entusiasmo questa nuova trovata, dato che la versione industriale dello Zycklon B costava molto poco e, privata dell’agente irritante che segnalava con anticipo la presenza nell’aria della sostanza, diventava inodore, incolore, insapore e letale con massima efficacia.
Höß si adoperò anche per rendere più efficaci gli arrivi dei treni, allungano i binari sino in prossimità delle camere a gas e implementando i forni in modo da smaltire con la massima velocità i cadaveri. Ma quando i morti divennero troppi da smaltire ad Auschwitz c’era anche “il buco”, una sorta di voragine con in fondo una grata e un fuoco alimentato a olio che bruciava sempre di fiamme altissime.
La puzza, si narra, era insopportabile.

Per il film “La zona di interesse” la casa degli Höß è stata ricostruita, non potendosi usare l’originale. Questa ricostruzione meticolosa – progettata per due anni e mezzo e poi realizzata in quattro mesi – è stata fedele all’originale, alle proporzioni e agli arredi interni realizzati nuovi ad hoc.
Il film non è girato in modo “tradizionale” con la troupe all’interno della dimora, ma con un innovativo sistema di camere fisse inserite nei muri che riprendevano in presa costante gli attori ed erano manovrate dal remoto dal regista Glazer; da un girato di centinaia di ore sono stati estratte poi le sequenze necessarie al montaggio e con questo si spiega la particolare ripresa “fissa” del film, al punto che ci si abitua, da spettatori, ai ripetuti angoli di sguardo con cui il regista ci porta dentro la casa facendoci sentire “dentro” pure noi.
Per lo stesso motivo mancano primi piani ed è difficile arrivare a vedere il viso dei protagonisti, che percepiamo nel loro “insieme” e nel loro movimento dentro gli spazi.
La casa è il fulcro della storia, il luogo dove si consuma il disallineamento dalla realtà della famiglia del comandante che vive e trova la sua felicità a distanza di orecchio dall’orrore del lager.
Il sonoro è infatti l’altro punto decisivo del film, dal momento che nulla del lager viene mai mostrato se non i muri esterni, ma è il suono (spari, urla, rumori di fabbrica che lavora senza sosta, cani che abbaiano) a far comprendere che l’orrore è così vicino eppure viene volutamente ignorato.
In questo senso  visivamente è un film dai colori accessi che si pongono in potente contrasto con il bianco e nero o con le tinte cupe di ogni film che colleghiamo alla Shoah aumentando il senso di contrasto e spaesamento.
Per questi motivi ovvero originalità della visione, scelte filmiche, visive e sonore, siamo senza dubbio di fronte a un grande film che resterà nel tempo e sarà paradigma di una narrazione che può essere ancora innovativa, sui lager.
Io lo ho capito a distanza di qualche giorno dalla visione. Come per tante pellicole ciò che conta non è (solo) l’impressione iniziale fatta anche di emozioni del momento, ma la sedimentazione nel tempo
Però non mi sento di condividere un entusiasmo assoluto, completo per il film.
Ho trovato “La zona di interesse” in alcuni punti davvero troppo lento e carente di quel minimo di tensione interna alla trama che avrei desiderato, oltre alla rappresentazione dell’orrore di una vita normale con bisogni normali accanto al lager.
Non ho letto il libro di Amis, ma mi pare di capire che la narrazione sia invece molto più articolata in termini di trama, mentre il film sceglie più la forma di un affresco dell’orrore che suggerisce e basta. Una sorta di reality show al passato che porta lo spettatore lì, a percepire l’assurdo contrasto tra vita di famiglia e genocidio divisi da pochi metri.
Per questo molti aspetti (la possibile corruzione di Höss, gli abusi della famiglia rispetto alle stesse regole del Reich, la vicenda dell’amante interna al lager, la spoliazione dei beni a proprio vantaggio, l’ipocrisia di Höß che si faceva usualmente passare per funzionario integerrimo ma poi usava il ruolo a suo personale vantaggio a differenza di altri gerarchi come Eichmann, il possibile senso di colpa di Höß che emergerà in qualche modo in sede di processo e qui sembra iniziare a coagularsi nei suoi malesseri) sono davvero così  accennati nel film che potrebbero risultare incomprensibili o impossibili da cogliere per uno spettatore che non abbia una forte dimestichezza con la storia.
Anche se è pur vero che, in generale, un film o qualsiasi opera artistica non deve per forza porsi il problema di essere compresa e comprensibile da qualsiasi spettatore, io penso che per un lavoro così importante, dispendioso e che potrebbe parlare a così tanti essere umani, il dubbio se non fosse stato il caso di rendere qualcosa appena più fruibile senza diventare didascalici, sarebbe stato lecito.
C’è poi  un piccolo sub-plot che davvero non sono riuscito a comprendere (quello con la tecnica di una sorta di “visore” notturno) e un inserto documentaristico pre-finale che riporta all’oggi ed è potente, però mi ha lasciato perplesso: ancora non mi sono deciso se sia una scelta geniale o una furba via di uscita da un film che nei fatti è quasi privo di un finale.
Io, alla fine sono uscito dal cinema con una sensazione di “ok, bello, importante, originale. Ma”.
Anche altre persone con mi sono confrontato si sono ritrovate con analogo pensiero.
Credo sia un film che ha dei singoli aspetti da Oscar, ma non il miglior film che ho visto in senso di piena completezza fra quelli candidati agli Oscar (io sceglierei “Past Lives” in generale e “Io capitano” per il film straniero).
Però, ecco, è un lavoro da vedere senza esitazione e che lascerà un segno.
Chiudo con un’informazione non nota e che il film non può dare, considerato che l’arco temporale scelto da Glazer non intercetta questo evento: condannato a morte per impiccagione, Rudolf Höß morì proprio ad Auschwitz, davanti all’ingresso delle camere a gas.
Dal punto in cui fu eseguita la condanna, tra gli alberi, poteva vedeva chiaramente le finestre di casa sua.

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Io sono Riccardo Gazzaniga. Conosco abbastanza bene le vicende del Terzo Reich e dei suoi assassini per gli studi svolti per il mio romanzo “In forma di essere umano” che racconta la fuga e la cattura di Adolf Eichmann, responsabile dell’Ufficio Affari Ebraici del Reich a opera del Mossad israeliano. Tra i personaggi appare in più scene anche Rudolf Höß.
Per chi fosse interessato a questo tema, notizie ulteriori si trovano qui.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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