Genova, Aprile 1945.
Dal giorno 23 i soldati tedeschi sono ormai in balia delle forze partigiane che stanno progressivamente tagliando le vie di fuga, le ferrovie, i collegamenti telefonici.
In tutto sono 30.000 soldati al comando del Generale Gunther Meinhold contro appena circa 4-5.000 insorti, che però hanno il controllo delle vie di entrate e uscita alla città, mentre gli alleati arrivano troppo a rilento e sono a La Spezia.
L’insurrezione è fissata per il 26 Aprile, ma il generale Meinhold chiede – come ha fatto giorni prima – una tregua di 4 giorni per lasciare indisturbato la città con le sue forze e gli armamenti, leggeri e pesanti.


Sono ore di enorme tensione: Meinhold ha l’ordine di non cedere e, per aprirsi la fuga, gioca l’ultima carta, cercando di passare da assediato ad assediante: e minaccia di bombardare Genova distruggendo il porto sparando dalla montagna  su cui ha ancora forze sufficienti e insieme di cannoneggiare la città dal mare con conseguenze terribili, come accaduto a Varsavia.
La notte tra il 23 e il 24 aprile, il Comitato di Liberazione Nazionale, con quattro voti contro due, decide che Genova non accetta condizioni negoziali e deve insorgere in anticipo contro i tedeschi.
Il 24 Aprile viene proclamato lo sciopero generale e ai partigiani si uniscono operai e cittadini comuni in un numero di 10 volte superiore a quanto previsto.
E così, al mattino alle 5, iniziano a sentirsi scambi di colpi di armi leggere e poi di mortaio.
I combattimenti sono violenti, ci sono diversi morti, soldati tedeschi e alcuni miliziani fascisti, ormai in difficoltà, sparano sui passanti e civili.
Si combatte in piazza De Ferrari, mentre nelle delegazioni, in particolare in tutta la Valpolcevera gli insorti hanno già preso il controllo di molte aree.
I partigiani occupano la strategica posizione sulle alture di Castello Raggio.
I tedeschi sono ormai isolati in contingenti dispersi e inchiodati in città, la camionale per Milano vede mezzi fermi che non riescono a evacuare e sono privi di acqua.
Meinhold minaccia nuovamente di bombardare, attenendosi agli ordini di Hitler, ma ormai è debole nella trattativa: il CLN, però, ha già in mano diversi prigionieri, circa 1.000 e risponde che – qualora venisse messa in atto una rappresaglia contro la città e i civili – i soldati della divisione sarebbero considerati criminali di guerra e dunque uccisi. Lo stesso Meinhold sarebbe un criminale di guerra.
All’alba del 25 aprile si combatte ancora, ma rapidamente anche sul mare i tedeschi devono cedere, a Sestri poi a Prà, Voltri e fino ad Arenzano.
In città vengono occupati piazza Acquaverde, la caserma di Sturla, l’ospedale di Rivarolo, la Valpolcevera quasi per intero.
Carmine Romanzi, nome di battaglia “Stefano”, laureato in medica e professore che diventerà rettore universitario.

Dopo un pericolosissimo viaggio notturno arriva a Savignone su un’ambulanza con due lettere per Meinhold, una è del CLN una del Cardinale Boetto.
Romanzi chiede, ancora, che i tedeschi depongano le armi: i partigiani del comandante  “Scrivia” hanno chiuso ogni uscita verso la linea gotica e che le forze ribelli sono soverchianti.
In realtà, nelle lettere, i numeri dei ribelli sono aumentati, per premere ancora di più sul comandante tedesco.
Meinhold allora consegna la sua pistola e si sposta a Genova, a San Fruttuoso, a Villa Migone, sede arcivescovile. È insieme al suo Capo di Stato Maggiore e al giovane colonello Pohl.
Non trovando la strada per Villa Migone, Meinhold viene scortato da due partigiani in sidecar: il giudice Barbera (Gigi) e Tomaini Ester (Titina).
A Villa Migone trova il console tedesco e il cardinale Boetto, che per tutto il periodo dell’occupazione nazista ha collaborato a salvare ebrei, operai, sacerdoti e nemici del regime dalla deportazione e dalla morte oltre ad aiutare e nutrire sfollati. Per la salvezza data agli ebrei sarà nominato “Giusto fra le nazioni” dallo Yad Vashem di Israele.
Ci sono, quindi, i rappresentanti politici del CLNL: Remo Scappini Presidente CLN , l’Avvocato Errico Martino e il Dottor Giuseppe Savoretti, nonno del celebre musicista Jack, membri del direttivo del CLN ligure e il Maggiore Mauro Aloni, Comandante dell’esercito di liberazione della Piazza di Genova.
Le parti discutono per ore, tenendo le posizioni in una tensione massima.
Il generale Meinhold appare confuso, sospeso tra rabbia e svanimento, chiede di rinviare, cerca di prendere tempo, ma sa di non aver molte scelte: l’ordine è di resistere e può ancora bombardare la città, come chiedono i suoi collaboratori.
Ma diversi dei suoi soldati si sono già arresi, compreso un grosso contingente al porto. E nel frattempo anche la città di Savona è insorta.
Il cardinale Boetto è il mediatore in quella drammatica situazione di stallo.
“Generale, ormai Genova è persa. Si renda conto che in caso di bombardamento nessun tedesco uscirà vivo da Genova. Eviti spargimenti di sangue”.
Meinhold è un uomo stanco, un vecchio soldato che ha capito di aver perso e, probabilmente, non vuole macchiarsi di un crimine di guerra.
Alle 19.30, quasi di scatto, firma la resa con la consegna delle armi ai partigiani, a garanzia di far uscire i soldati tedeschi dalla città come prigionieri ma incolumi.
“Questo doveva essere fatto e l’ho fatto. Non è stata cosa facile» scriverà nelle sue memorie.


Il suo più giovane attendente Pohl, acceso nazista, dopo la firma si uccide, convinto che combattere fino alla fine e bombardare la città devastandola sarebbe stata la scelta più onorevole da fare.
Meinhold viene condannato a morte per la sua decisione, condanna che rimarrà non eseguita perché nessuno dei gerarchi riuscirà a tenere le posizioni e andare a catturarlo.
La mattina del 26 Aprile Radio Genova annuncia:
“Popolo genovese esulta. L’insurrezione, la tua insurrezione, è vinta. Per la prima volta nel corso di questa guerra, un corpo d’esercito agguerrito e ancora bene armato si è arreso dinanzi a un popolo. Genova è libera. Viva il popolo genovese, viva l’Italia”.
Alle 19 un lunghissimo silenzioso corteo di 6.000 soldati tedeschi, guidato da Meinhold, sfila disarmato per la città in segno di resa.
Ai suoi fianchi, in armi, lo scortano partigiani e cittadini di Genova.

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