Anche nei percorsi della memoria ci sono storie meno note di altre, vicende di coraggio più dimenticato, a volte perché scomode.
A volte abbiamo bisogno di eroi monocolore, rifuggendo la complicazione di personaggi ambigui come Dimităr Pešev.
Il magistrato e politico bulgaro Pešev, vice presidente del suo Parlamento è un ammiratore di Hitler, all’inizio. È favorevole che la Bulgaria si allei con la Germania in cambio di un sostegno nella riannessione di territori perduti alla fine della Prima guerra mondiale, tra cui la Macedonia e la Tracia. La Bulgaria del resto è un paese debole militarmente, rischia di essere spazzato via, ma con un’alleanza strategica potrebbe salvarsi e restare defilato.
Rapidamente, però. Pešev capisce che il suo paese ha firmato un patto con il diavolo, quando la Bulgaria per accodarsi alla volontà di Hitler promulga le leggi razziali nel 1940.
Pešev non interviene nella discussione in aula e non partecipa al voto.
Si illude ancora che tutto passi, in fondo le leggi sono approvate ma gli ebrei bulgari non sono soggetti a deportazioni e non subiscono conseguenze mortali.
Ma tutto cambia il 7 marzo 1943.
Jako Baruch – vecchio amico d’infanzia ebreo di Dimităr – lo raggiunge a casa con una notizia sconvolgente: il ministro dell’Interno Gabrovski sta trattando per consegnare gli ebrei al Reich nazista e inviarli nei campi di concentramento.
Parliamo di un numero vicino alle cinquantamila persone.
La trattativa è segreta, perché la comunità ebraica è ben integrata in Bulgaria e il governo teme che la popolazione si opponga. Il piano è comunicare il tutto a deportazione già avvenuta.
E qui Dimităr Pešev riscatta la sua vita.
Di fronte al materializzarsi concreto dell’orrore raduna una decina di colleghi parlamentari, va direttamente nell’ufficio del ministro Gabrovski e, in un confronto drammatico, chiede e ottiene che le deportazioni vengano momentaneamente sospese. Poi inizia a chiamare di persona le prefetture per accertarsi che non ci siano iniziative per deportare gli ebrei.
Pešev sa che la sua posizione è debole, perché è quasi solo e l’operazione è sospesa, ma non annullata. Non ci sono atti ufficiali e i cittadini non sanno ancora nulla.
«Per evitare l’irreparabile e raggiungere l’obiettivo bisognava porre la questione in Parlamento.»
Pešev scrive di suo pugno una lettera al Parlamento e la fa firmare ad altri quarantuno deputati. Alcuni colleghi firmano con sollievo come se non aspettassero altro che qualcuno che trovasse il coraggio.
Alla fine si reca dal presidente del Parlamento per annunciargli la sua intenzione.
Quello gli risponde duro, freddo: «Non è conveniente, Pešev».
Ma lui è fermo. «La presenterò lo stesso», risponde, e così fa.
“Non possiamo credere che ci siano dei piani per deportare questa popolazione dalla Bulgaria, come suggeriscono alcune voci a danno del governo.
Tali misure sono inammissibili, non solo perché queste persone – cittadini bulgari – non possono essere espulse dalla Bulgaria, ma anche perché ciò avrebbe serie conseguenze per il paese. Sarebbe un’indegna macchia d’infamia sull’onore della Bulgaria, che costituirebbe un grave peso morale, ma anche politico, privandola in futuro di ogni valido argomento nei rapporti internazionali.
Un minimo livello di legalità è necessario per governare, come l’aria è necessaria alla vita.
L’onore della Bulgaria e del popolo bulgaro non è solo una questione di sentimento, è soprattutto un elemento della sua politica. È un capitale politico del valore massimo ed è per questo che nessuno ha il diritto di usarlo indiscriminatamente se il popolo intero non è d’accordo.”
La lettera si diffonde immediatamente tra la gente.
L’ala più estremista del governo deve arretrare, la popolazione bulgara inizia a premere su re Boris III, che si trova costretto a revocare a Hitler la disponibilità a deportare gli ebrei.
La ritorsione contro Pešev è immediata, e viene deposto dalla carica di vicepresidente del Parlamento mentre gli estremisti del paese lo accusano di proteggere gli ebrei e gli lanciano pietre contro la casa.
Viene minacciato di essere consegnato ai tedeschi, una volta che la Germania avrà vinto la guerra.
Sono 48.000 gli ebrei bulgari che non sono deportati grazie alla presa di posizione di Dimitar Pešev.
Quando i sovietici entrano da est in Bulgaria Dimităr Pešev diventa un nemico. Lo accusano, paradossalmente di aver sostenuto un governo filonazista e antisemita, gli rinfacciano di aver salvato ebrei in cambio di denaro e ritorno politico.
Al suo processo sono diversi testimoni ebrei a scagionarlo, eppure la corte è ancora intenzionata a condannarlo a morte, destino che tocca ad alcuni dei deputati che hanno firmato la sua lettera.
Pešev evita la forca perché anni prima, come ministro della Giustizia, ha salvato dalla condanna un uomo che ora, nel nuovo governo filorusso, è ministro della Guerra.
Subisce però una condanna a quindici anni di prigione, ne sconta uno, viene liberato e interdetto dalla professione di magistrato, mentre il merito principale del salvataggio degli ebrei bulgari viene attribuito al nuovo leader politico Živkov, alla guida di un regime filosovietico vicino alla dittatura al punto di candidarlo al Nobel per la Pace. L’idea, però, è talmente bislacca e sprovvista di prove concrete che nessuno ha il coraggio di portarla in fondo.
In tutto questo Dimităr Pešev finisce emarginato e senza soldi, mantenuto dalla sorella, eppure continua a ricevere lettere e visite di ebrei fuggiti in Israele per ringraziarlo di persona del suo coraggio. Scrive le sue memorie, ma non spende una parola sulle bugie che circolano a proposito della scampata deportazione.
Sarà una archivista del nuovo governo a riscoprire il nome di Pešev fra quelli cancellati dalla storia bulgara e incontrarlo.
«Quell’uomo così distinto e discreto mi fece capire che si potevano compiere atti di grande umanità anche se si militava in quello che fino ad allora io avevo considerato il campo nemico.»
Di fatto il salvatore di quasi cinquantamila ebrei muore pressoché dimenticato nel suo paese, nel 1973.
Ma, in quello stesso anno, è la commissione dello Yad Vashem, l’Ente nazionale per la Memoria della Shoah di Israele, a riabilitare la sua memoria e ad attribuirgli il titolo di “Giusto tra le nazioni”.
Dimităr Pešev ci ricorda l’importanza e la forza degli atti politici e delle parole, capaci di fermare la macchina del male.
«Il silenzio sarebbe stato contrario alla mia coscienza e al mio senso di responsabilità di deputato e di uomo, e mi sarei reso complice di tutto ciò che sarebbe potuto accadere in seguito”
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Questa storia, raccontata in forma più estesa e dettagliata, è inclusa nel mio libro “Come fiori che rompono l’asfalto – Venti storie di coraggio” edito da Rizzoli e uscito nel Settembre 2020.
Si trova in tutte le librerie fisiche e negli store digitali.