Ho aspettato, prima di leggere “Le assaggiatrici”di Rosella Postorino. L’ho fatto per un insieme di motivi.
Innanzitutto, quando in tanti parlano troppo bene di un libro, io sento spesso il bisogno di lasciar decantare l’hype mediatico.
Poi c’era il fatto che il romanzo aveva vinto il Campiello e, talvolta, Strega e Campiello avevano premiato libri rivelatisi poi deludenti rispetto al mio gusto di lettore. (Per fare un esempio: il libro vincitore dello Strega, “La ragazza con la Leica”).
Soprattutto c’era l’inevitabile difficoltà che trovo a leggere i libri di autori che conosco personalmente, problema ancora più eclatante nel caso di Rosella Postorino, che è stata l’editor dei miei due romanzi pubblicati da Einaudi Stile Libero.
Il rapporto tra autore ed editor è qualcosa di delicato e complesso, una forma di intimità totale che riguarda un ristretto momento della vita e, soprattutto, è quasi unilaterale: l’editor conosce, per lavoro, particolari e segreti che lo scrittore cela ai suoi stessi lettori. Dello scrittore l’editor sfiora le manie, le paure, le passioni analizzando il testo insieme a lui, criticando il libro per metterlo in discussione, cercarne le debolezze.
Non è un caso che cambiare editor, più ancora che cambiare editore, sia un passaggio non banale per un autore e che quel legame tracciato comunque resista.
Dal canto suo lo scrittore, rispetto al suo editor, conserva sempre un piccolo/grande margine di superiorità: è l’artista, è il costruttore di quei palazzi di parole che l’editor aiuta a ristrutturare e rendere abitabili. Lo scrittore può cullarsi pensando: “Ok, tu mi correggi, mi contesti, è il tuo lavoro. Ma io ho il dono! Io sono QUELLO che SCRIVE!”.
Leggere un libro del tuo editor è un ribaltamento di parti e se – come in questo caso specifico – si tratta di un romanzo di enorme successo che stravende, stravince premi, cede i diritti in mezzo mondo e ottiene riconoscimenti unanimi, allora potrebbe esistere il rischio che una piccola parte rosicona di te sia pronta ad affilare le armi critiche in una sorta di contrappasso.
Questo turbine di emozioni spiega perché non fossi certo il lettore più facile da conquistare, quando mi sono avvicinato a “Le assaggiatrici”, sebbene avessi apprezzato già il precedente libro di Rosella, “Il corpo docile”.
Bene: “Le assaggiatrici” mi ha conquistato lo stesso e alla grande.
La scrittura di Rosella è, come già ne “Il corpo docile”, insieme precisa e sensuale, specificando che uso questa parola nella sua declinazione più pura ovvero di una scrittura pregna dei sensi dei personaggi che racconta.
Se uno scrittore, per forza di cose, sfrutta e affina per lo più la vista (io, personalmente, quando scrivo sembro addirittura sprovvisto degli altri sensi, maledizione a me…) Rosella Postorino riempie la sua scrittura di tatto e olfatto e, qui, soprattutto, del senso del gusto. Anzi sono il gusto, la bocca, il cibo nel senso più lato del termine, a dominare questo libro.
Non poteva essere che così, raccontando la storia di Rosa Sauer, ragazza di Berlino che si trasferisce in campagna nella casa dei suoceri. Loro sono i genitori di Gregor, marito partito per la guerra di Russia come soldato della Wermacht. Di sorpresa, senza quasi ragione e scelta, Rosa viene convocata dal Reich e arruolata in un gruppo di donne assegnate a un compito singolare e delicatissimo: assaggiare il cibo destinato a Hitler per evitare che venga avvelenato.
Rosa deve affrontare non solo il suo compito, ma anche l’ostilità di (quasi) tutto il gruppo di nuove “colleghe” che la vedono cittadina, diversa. Donne come lei che la respingono, emarginandola, nonostante la tragicità del loro speciale gruppo: apparentemente chiamate a un grande servizio per il Reich, le assaggiatrici sono in verità delle reiette, destinate a vivere o morire in vece altrui, preziose ma sostituibili, fondamentali eppure disprezzate persino dai soldati delle SS che sovrintendono al loro compito.
Mentre il cibo di Hitler sazia la sua fame, Rosa, vedova bianca, incrocia la strada del tenente nazista Ziegler che rappresenta invece il nutrimento per un corpo che ha dimenticato la passione.
Il nutrimento, dunque, è al centro del libro, nutrimento fisico e mentale, brama di pietanze e di sentimenti, nutrimento dato e tolto, fame di cibo e sensi che viene saziata nel modo e dalle persone sbagliate, eppure viene saziata.
Anche la figura di Ziegler, il gerarca nazista e comandante della caserma dove Rosa presta “servizio” che una notte si palesa fuori dalla finestra di lei e resta a fissarla in attesa di un cenno, mi ha rammentato una creatura che è l’emblema dei sensi famelici.
Ziegler mi ha evocato l’immagine del vampiro che, nella mitologia europea, ha bisogno di un invito a entrare in casa delle sue vittime. “Lasciami entrare” chiede il vampiro delle leggende del centro Europa, perché senza invito non può accedere alla casa e ai corpi delle sue vittime. (Da qui il titolo omonimo di un fantastico romanzo horror di Lindqvist divenuto anche un film di successo).
Come un vampiro, attraente e detestabile, desiderabile e ripugnante, il tenente Ziegler – che al posto del mantello nero indossa una divisa delle SS – appare nella notte e attende l’invito a entrare dentro la vita di Rosa per nutrirsi (e nutrirla) di una passione che entrambi hanno perduto.
E noi siamo lì, a chiederci se la sventurata risponderà.
Al tempo stesso ho ritrovato in questo libro tutta l’attenzione che Rosella come editor mi ha trasmesso circa la necessità di tenere viva la trama dei romanzi, l’importanza di dosare i colpi di scena e i flashback, la necessità di non concedere spazio a cedimenti di tensione.
“Le assaggiatrici” tiene attaccato il lettore per tutto il libro e, insieme, racconta una vicenda non banale, affrontando il nazismo – tema fra i più trattati della letteratura – da un angolo di visuale particolare, anche a prescindere dell’originalità della trama e del “lavoro” di Rosa e delle assaggiatrici. Rosa non è un’eroina, non è una dissidente, non è convintamente nazista ma nemmeno apertamente ostile al regime, è una donna che viene travolta dalla guerra, dal regime, dai lutti e allora cerca di restare aggrappata a quello che ha, al nutrimento che trova. Una protagonista divisa tra una crescente volontà di agire e il ruolo di minuscola rotellina dentro ingranaggi giganteschi che la schiacciano e che pure lei stessa contribuisce a oliare e far girare.
La vicenda di Rosa ci mette di fronte all’eterno dilemma del “cosa avremmo fatto noi” e la risposta non è affatto scontata.
Una scelta narrativa non facile, quella di scrivere una storia in cui manca una redenzione, ma pure c’è una crescita del personaggio, una storia in cui ci sono forse degli eroi, ma tale non sarà Rosa che rimane un personaggio complesso, capace di suscitare in noi comprensione quanto rabbia, picchi di affetto e attimi di disprezzo.
“Le assaggiatrici” evita l’incaglio di troppa narrativa italiana giustamente celebrata per la qualità artistico-linguistica, ma spesso così scarna di trama e incastri narrativi efficaci da sfiorare (per il mio gusto di semplice lettore) la noia e suscitarmi sbadigli. Libri scritti meravigliosamente dove, però, non succede quasi mai nulla. O, quando succede, succede in modo irrazionale, buttando via le premesse in colpi di scena immotivati o deboli o inefficaci.
Invece “Le assaggiatrici” è un libro scritto meravigliosamente, con un tema centrale enorme (il nazismo e la connivenza di chi non poteva agevolmente sottrarsi alla morsa del Reich) e tanti sotto-temi di interesse. Ma è anche un libro in cui succede molto, la trama tiene la tensione e la storia di Rosa s’incastra con quella di un Hitler che può anche evitare il veleno del suo cibo, ma non quello che ormai circola nel corpo del suo Reich.
Non è un caso che negli Stati Uniti si siano accaparrati i diritti fra i primi, intuendone da subito le potenzialità, anche commerciali.
Un romanzo che dimostra di meritare tutto il bene che si è detto, del libro e della sua autrice, da cui – per mia fortuna – ho avuto il privilegio di imparare molto.
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