Guardate bene questa foto.
Rappresenta un uomo che taglia il traguardo per primo.
Ma perde.
Eppure anche vince.
È un giorno di afa incredibile, il 24 Luglio 1908, a Londra.
La maratona olimpica ha 56 partecipanti e, per la prima volta, misura 42,195 chilometri ovvero la lunghezza che, da questo momento in avanti, sarà codificata per la disciplina.
L’allungamento di quasi 300 metri rispetto al precedente standard è stabilito per far partire la gara di Londra davanti al castello di Windsor. Questo perché dalle finestre i figli della regina Alessandra, nonna dell’attuale regina Elisabetta, la potessero vedere iniziare.
Anche l’arrivo è spostato avanti, per far terminare la gara davanti al palco reale.
Sarà anche quest’allungamento a diventare decisivo per la sorte della gara e della vita di Dorando Pietri, fondista italiano, un metro e cinquantanove centimetri e ventitré anni che, visti adesso nelle foto, sembrano tanti di più.
Dorando è arrivato allo sport in modo incredibile: un giorno del 1904, a Correggio, si è messo a correre dietro al famoso atleta Pericle Pagliani impegnato in una gara ed è riuscito a restargli dietro sino al traguardo, nonostante portasse gli abiti con cui lavorava in un forno.
Pietri, in pochi anni, è diventato il miglior mezzofondista italiano, detentore del record nazionale sui 5.000 e capace di disimpegnarsi bene anche sulla lunghissima distanza, i 42 chilometri.
Ma siamo nel 1908, non esistono programmi di allenamento speciali, le scarpe non hanno alcuna ammortizzazione alle scuole sottoponendo i corpi degli atleti a un’usura enorme. Ci sono pochi studi sulle reazioni del corpo e sui motivi per cui, all’esaurimento del glicogeno che arriva intorno ai 32 km, seguano le crisi profonde e degli atleti: in compenso è acclarato, all’epoca, l’uso della velenosissima stricnina come anabolizzante. Non sono rari i casi di atleti che collassano e di altri che salgono a bordo di carrozze o auto a motore per avvantaggiarsi sui rivali.
Allo stadio di White City sono presenti circa 100.000 persone in attesa dell’arrivo della corsa e, stando ai reportage, quasi un milione attendono fuori. Numeri pazzeschi. Nell’attesa, sul campo, si svolgono gare di lotta, di corsa a ostacoli e pure di nuoto, visto che c’è anche una piscina.
A ogni miglio, dentro l’impianto, viene letto il nome dell’atleta di testa.
Il primo nome letto, per la gioia della folla, è quello di Thomas Jack, inglese. Poi Jack Price, inglese anche lui.
Dorando Pietri è nel gruppo dietro che arranca per il ritmo indiavolato dei britannici, che però scoppiano uno dopo l’altro.
Il campione canadese Longboat, favoritissimo, passa in testa.
Ma, intorno al trentaduesimo chilometro, Longboat collassa e si ritira, sembra per aver ingerito della stricnina, secondo alcune voci fornitagli dal suo stesso allenatore che aveva puntato contro di lui.
Dorando, inesorabilmente, inizia a recuperare. Arriva fino al secondo posto, e al trentaduesimo chilometro, quando in testa passa il sudafricano Hefferson.
Ma Hefferson beve un brandy offerto sulla strada per ridargli forza e inizia a sentirsi male. Quando i tecnici gli dicono che l’atleta di testa è in crisi, Pietri aumenta il ritmo, lo attacca e lo supera, prendendo la testa e facendo il vuoto alle sue spalle.
Un razzo segnala allo stadio di White City che Pietri sta arrivando, da solo.
Ma, proprio nel tunnel che porta dentro l’impianto, il corpo di Dorando decide che basta, non ce n’è più.
“Il petto mi si è gonfiato e ho cominciato ad avvertire vertigini, mi sono sentito sollevato e trascinato mentre le energie mi abbandonavano. L’ultimo respiro ed eccomi allo stadio. Sono primo, cado, poi non ricordo più nulla” racconterà in una delle poche interviste giunte sino a noi.
Dorando cade e viene fatto alzare dai giudici, ma sbaglia senso di marcia e viene fatto girare nella direzione giusta.
Quando entra sulla pista per gli ultimi metri ha il viso giallo che contrasta con i pantaloncini rossi, gli occhi senza espressione. Non corre più, ormai cammina e barcolla e cade ancora, quattro, cinque volte.
I giudici di gara, impietositi, lo sorreggono ripetutamente. Uno di loro, Jack Clerk, racconterà: “Ho cercato di tenere lontano quanti volevano aiutarlo per non farlo squalificare, ma il dottor Michael Bulger mi ha ordinato di sollevare le gambe di Dorando ogni volta che cadeva mentre lui gli praticava un massaggio cardiaco”.
La folla lo incita, mentre il secondo, l’americano Hayes, irrompe nello stadio dopo aver recuperato tutto il distacco: Dorando sta correndo gli ultimi 500 metri ormai da dieci minuti.
In un ultimo sforzo disperato, vedendo la linea di arrivo, Pietri riprende a correre a taglia il traguardo per primo, poi stramazza a terra, svenuto.
Hayes presenta ricorso perché Pietri è stato ingiustamente aiutato e lo vince, com’è inevitabile.
La medaglia d’oro viene revocata e Dorando squalificato, ma la regina Alessandra decide di premiarlo con una coppa d’argento, contribuendo ad alimentarne la leggenda.
“Sebbene abbia perso la gara, ho vinto in popolarità. La mia vita è così felice che il dramma di Londra mi pare l’intervento della Provvidenza”.
Pietri diventa uno dei primi atleti-celebrità, passando al professionismo ovvero a corse retribuite e, talvolta, organizzate apposta per lui, sfide con altri grandi maratoneti, come lo stesso Hayes che batterà in una contesa fatta di 262 pazzeschi giri in uno stadio di fronte a un pubblico estasiato.
In tre anni di professionismo e 46 gare, Dorando Pietri guadagna oltre 200.000 lire solo di premi, una cifra enorme per l’epoca. In più riceve dal suo agente una diaria settimanale di 1250 lire.
Pietri correrà tanto, anche troppo, partecipando a diverse sfide a breve distanza l’una dall’altra in tempi con frequenze impossibili.
L’ultima maratona la corre a Buenos Aires nel 1908 dove segna il suo primato personale in 2 ore 38 minuti e 48 secondi.
Con i guadagni delle corse Pietri diventerà quasi ricco e aprirà un grande albergo a Carpi, l’hotel “Dorando” che fallirà nel primo dopoguerra: finirà a guadagnarsi da vivere gestendo un’autorimessa e facendo anche l’autista.
So che continuò anche ad allenare atleti, perché questo fatto me lo raccontò mio nonno, Aldo Vivaldi, di cui Dorando Pietri fu allenatore.
E doveva essere anche un buon coach, visto che mio nonno divenne uno dei migliori mezzofondisti italiani, anche se la guerra gli impedì di continuare a correre e lo spedì in un campo di prigionia tedesco.
Però questa storia di Dorando Pietri sostenuto dai giudici al traguardo il nonno me la raccontava sempre, quand’ero piccolo, con tutto l’orgoglio di aver corso sotto la guida del campione prima che morisse nel 1942 a soli 56 anni, per un attacco di cuore.
Secondo mio nonno Aldo, ovviamente, la squalifica era ingiusta e Dorando Pietri restava il vincitore della gara.
Lo pensava anche Arthur Conan Doyle, creatore di Sherlock Holmes, che era presente sugli spalti per raccontare in un articolo la gara e divenne un fan accanito di Pietri, tanto da promuovere una raccolta di denaro per lui, versando il primo contributo.
«È andato al limite della sopportazione umana. La grande impresa dell’italiano non potrà mai essere cancellata dagli archivi dello sport, qualunque possa essere la decisione dei giudici.»
Questa storia, insieme ad altre 19, è contenuta nel mio libro “Abbiamo toccato le stelle”, pubblicato da Rizzoli.
Il libro raccoglie 20 vicende di campionesse e campioni capaci di andare oltre lo sport per segnare la vita di tutti gli uomini con le loro lotte, il loro coraggio, la loro passione, la loro dedizione. Non solo storie di maratoneti come Terry Fox, che decise di attraversare tutto il Canado correndo nonostante una gamba amputata, ma vicende di campioni di tanti sport diversi: vi racconto della nuotatrice Yusra Mardini, costretta a fuggire dalla guerra su un barcone e a nuotare nel mare per sopravvivere, del ciclista Gino Bartali, che salvò centinaia di ebrei grazie alla sua bicicletta, della ginnasta Vera Caslavska che pagò per tutta la vita omosessuale Emile Griffith costretto a lottare tutta la vita contro odio e discriminazioni, al campione di competizioni estreme Mikael Lindnord che ha scelto di portare con la sua squadra un cane randagio per salvargli la vita.
Un libro per ragazzi e adulti, un modo per parlare di vita attraverso lo sport.