In questo momento Emanuel Carrère è lo scrittore di cui aspetto (e leggo) con più entusiasmo qualsiasi nuovo lavoro.
La sua capacità di partire dal reale per riflettere del mondo e poi anche di sè stesso e poi ancora, con un una sorta di tuffo carpiato, riuscire a parlare a ogni lettore, credo abbia davvero un’ unicità riconoscibile. La quale si mischia a una scrittura che ha picchi di alto e basso insieme, che trova immagini e connessioni magistrali senza mai perdere in fluidità.
V13 è il nome tecnico del processo contro Salah Abdeslam, unico sopravvissuto del commando responsabile del triplice attentato che colpì il Bataclan, i bistrot, lo stadio di France e agli uomini che -pur non partecipando direttamente- collaborarono alle operazioni.
Il più rilevante, oltre ad Abdeslam, è Mohamed Abrini che avrebbe dovuto fare parte del commando, ma rinunciò la sera precedente e poi (pazzesco) fece lo stesso anche nei successivi attentati di Bruxelles.
Al tempo stesso questo è un processo ai morti, agli attentatori che quella notte si sono fatti saltare e non possono più essere condannati.
Carrère segue tutto il processo come cronista “aggiunto” del giornale OBS, scrivendo una serie di reportage settimanali che, ampliati, diventeranno l’ossatura di questo libro.
Questo approccio ricorda in qualche misura la presenza di Hannah Arendt al processo Eichmann, dettaglio che ovviamente ha avuto un effetto di fascinazione su di me, dato che da “La banalità del male” sono partito per tutti gli studi con cui ho costruito il mio ultimo romanzo.
Anche qui, come per Eichmann, il mediatico procedimento contro Abdeslam diventa un processo più ampio al terrorismo islamico e uno strumento per dimostrare con il diritto e la sua applicazione rigorosa la forza dello Stato.
Come si diceva per Eichmann: noi gli concederemo quel processo e quella difesa che lui non concesse alle sue vittime.
Rispetto alla Arendt, Carrère ha il vantaggio di seguire un processo in cui le evidenze sono in buona misura già molto più accertate o ricostruibili con prove certe, anche scientifiche e tecnologiche.
Ma anche in “V13” torna la riflessione sul male rappresentato dagli imputati, un male che citando Simon Weil, Carrère definisce desertico e noioso, molto meno affascinante e grandioso di quello che è il male “immaginario”.
Il contrario accade con il bene che se, a immaginarcelo, sembra noioso, visto all’opera diventa una forza grandiosa.
Il bene è l’altra presenza che rende diverso l’approccio di Carrère da quello di Arendt.
“V13 “è un libro intriso della forza del bene in senso ampio, nel senso di umanità.
Un bene che sta nel coraggio dei sopravvissuti di tentare di ricostruire la propria esistenza e andare avanti superando gli orrendi traumi vissuti, nell’umanità di chi ha aiutato sconosciuti, nell’ardore del poliziotto che entra da solo al Bataclan e abbatte uno dei terroristi, nel senso di colpa di chi si è salvato, nei legami che si creano tra i parenti delle vittime capaci perfino di comprendere quali degli imputati, effettivamente, siano finiti nell’inchiesta davvero per caso, senza alcun ruolo concreto nelle stragi, magari solo per aver offerto un passaggio in auto all’uomo sbagliato nel mondo sbagliato.
Il libro racconta anche le vicende di alcune vittime, il fatale corso che le conduce a quel luogo e quel momento, la loro innocenza, sorprese in un momento di gioia. Mostra la possibilità perduta che sono state le loro vite spezzate e, facendolo, espone in modo crudo e perfetto l’assurdità del terrorismo.
(Mi ha ricordato, in questo, un meraviglioso passaggio di “Eureka Street” di McLiam Wilson).
Se qualcosa manca, in V13, è l’approfondimento delle dinamiche singole di radicalizzazione dei soggetti, uomini che partono per lo più da piccoli sbandati tossici di periferia per diventare attentatori; diciamo la parte dell’indottrinamento progressivo.
Vediamo, però, la loro motivazione: voi siete andati a combattere in Siria come in Iraq uccidendo ugualmente innocenti, noi non abbiamo fatto altro che reagire con i mezzi che abbiamo alle mostruosità che abbiamo dovuto vedere.
Questa “mancanza” è dovuta anche al fatto che quel percorso di radicalizzazione si è compiuto in buona parte in Siria e i veri leader ideologici e morali radicali dell’operazionei sono deceduti nell’impresa.
Ma, provo a dire, l’approccio intero di Carrère è diverso, per esempio, da quello di Truman Capote in “A sangue freddo”, un altro libro che mi viene in mente pensando a V13.
Carrère rappresenta Abdeslam e Abrini e gli altri imputati con le loro miserie e contraddizioni, si interroga attentamente su quando mentano o possano dire la verità, su quali affermazioni abbiano una loro solidità e quali siano deboli, però non concede loro la sua empatia e non potrebbe essere che così, in un processo dove decine e decine di vittime sono presenti fisicamente e raccontano in prima persona le loro sofferenze fisiche e interiori.
Anche nella complessa posizione di Abdelsalah (che, di fatto, rischia l’ergastolo senza aver ucciso direttamente nessuno, dato che ha rinunciato a farsi esplodere per un presunto rigurgito di umanità) Carrère cerca di scandagliarne la verità e la sincerità in modo rigoroso e molto “giudiziario”, ma sembra mantenere un punto fermo: Abdeslam è comunque un uomo che si era messo una cintura esplosiva ed era salito sul “convoglio della morte”.
Da questo non si torna indietro.
Per lui come per tutti i complici (almeno per quelli consapevoli) ci sono margini di giustizia ed esatto riconoscimento del ruolo e della colpa, ma non di pietas.
Quella rimane riservata alle vittime e, in parte, ai 3 imputati minori, coinvolti ,”loro malgrado”.
Carrère non è mai una voce neutra, anche in questo libro è presente con le sue posizioni, le sue valutazioni, la spinta a egoriferire gli eventi che gli capitano intorno, ma in V13 la sua presenza è meno ingombrante rispetto ad altri testi, contenuta da un dovere di cronaca che assolve con la sua usuale maniacalità, al punto da presenziare a ogni udienza, perfino le più tecniche, destando lo stupore perfino ai responsabili del giornale che si avvale della sua collaborazione.
E io penso che il rigore, come il bene, sia spesso considerato noioso, ma, quando lo vedi all’opera in un grande artista, diventi meraviglioso.
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Io sono Riccardo Gazzaniga.
Il mio ultimo romanzo si chiama “In forma di essere umano” e racconta la fuga e la cattura di Adolf Eichmann, responsabile dell’Ufficio Affari Ebraici del Reich a opera del Mossad israeliano, cercando di mettere insieme il thriller, la Storia, la non – fiction per raccontare come accadde che gli uomini divennero mostri.
Per chi fosse interessato a questo tema, notizie ulteriori si trovano qui.