C’è una storia nella Storia, dietro la famigerata scritta “Arbeit macht frei”, il lavoro rende liberi.
La frase è tratta dal titolo dal romanzo dello scrittore tedesco Lorenz Diefenbach e venne usata per la prima volta nel 1933 nel campo di concentramento costruito a Dachau sfruttando un’antica caserma.
Si pensò poi di riprenderla anche ad Auschwitz dove fu fatta forgiare all’officina interna dei reclusi ebrei per ordine dello stesso COmandnate Höß.
L’idea beffarda e tragica  era che i detenuti, uscendo, passassero sotto quella scritta e ricordassero il loro ruolo.
Guardandola bene, si nota che la scritta è strana.
La b di Arbeit infatti è capovolta.

arbeti macht frei scritta
Probabilmente questo errore fu voluto dal fabbro che se occupò direttamente.
Si trattava di Jan Liwacz, prigioniero polacco non ebreo numero 1010 capo della Schlosserei, l’officina che fabbricava lampioni, inferriate e oggetti in metallo. Decise di saldare la lettera «B» al contrario, per indicare moralmente il proprio dissenso.
Fu un tentativo silenzioso di protesta di cui ilComandante del campo Höß se ne accorse, ma decise di non punire i fabbri.
Quella scritta storta gli sembrava adeguata al campo il luogo della distorsione per eccellenza.
Rudolf Höß abitava lì fuori, in una villetta.
Dalla finestra del secondo piano, direttamente dal suo studio, poteva vedere l’accesso a una delle camere della morte.
La casa del Comandante era grigia e ci viveva con moglie, tre figlie e due figli.
Aveva un giardino che presentava sempre un problema cronico: la presenza di polvere nera residuo dai forni.
Höß utilizzava deportati per pulirla.
Aveva anche una piccola piscina, uno scivolo per i ragazzi e quadrato di sabbia dove farli giocare, due bagni, uno bianco e uno verde, il riscaldamento centralizzato, una grande sala con una credenza per la cristalleria.
La signora Hedwig Höß organizzava lì eventi mondani per altri ufficiali le cui mogli arrivavano con la permanente e i vestiti eleganti. Lei è riservata, troppo.
In giardino n on si vedeva nulla.
Le betulle (Birken, da cui il nome del secondo campo, Birkenau) impedivano di notare i camini.
Il comandante Höß non si limitava a usare prigionieri per le pulizie di casa, ma anche per farsi costruire mobili su misu­ra e la moglie utilizzava un artista internato come designer della villetta.
Per tenere i ragazzi quando andava al lavoro invece usava i Testimoni di Geova, che riteneva educatissimi.
Per questi che venivano visti come “abusi” per un breve periodo perse l’incarico che poi però ebbe di nuovo, data la sua efficienza.
Quando fu condannato a morte per i suoi crimini, alla fine della seconda guerra mondiale, la condanna fu eseguita esattamente nel punto davanti all’ingresso delle camere a gas, da cui si vedeva la finestra di casa sua.
Liwacz aveva uno dei primissimi numeri, il 1010 e rimase per in tempo lunghissimo ad Auschwitz dal 1940 al 1944.

jan liwaczGrazie alla sua arte fu in qualche modo preservato eppure venne per due volte punito con il confino in isolamento.
Una volta liberato Liwacz nel 1953 ha forgiato gratuitamente a mano e donato la cancellata che circonda la scultura della Trinità in Piazza della Libertà, a Bystrzyka dove, al 110mo anniversario della sua nascita è stata aperta una mostra dedicata alla sua storia e alla sua arte, che insegnò sino alla fine della vita.
Il gesto di ribellione morale di Liwacz ha ispirato una statua che rappresenta la B che nel 2014 è stata posta di fronte alla sede del Parlamento Europeo a Bruxelles.

____

Io sono Riccardo Gazzaniga.
Il mio ultimo romanzo si chiama “In forma di essere umano” e racconta la fuga e la cattura di Adolf Eichmann, responsabile dell’Ufficio Affari Ebraici del Reich a opera del Mossad israeliano,  cercando di mettere insieme il thriller, la Storial la non – fiction per raccontare come accadde che gli uomini  divennero mostri.
Per chi fosse interessato a questo tema, notizie ulteriori si trovano qui.

In forma di essere umano

Commenti