Confessate, perché tanto lo so. 
Anche voi, che fate finta di nulla. Pure voi avevate la cassetta con “Il primo disco degli Europe”. 
O, anche, “L’unico disco degli Europe”.

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Sappiate che sono passati trent’anni. 
Cazzo, direte voi. 
E già, ragazzi, siamo proprio vecchi, se abbiamo amato il primo disco degli Europe. Che poi non era mica il primo, ma il terzo.
Quando scrivono The final countdown gli Europe sono una band già piuttosto famosa, dalle loro parti.
Sono nati nel 1979, con il nome di Force, a Upplands Vasby, sobbordo di Stoccolma, fondati da un gruppo di ragazzi che si conoscevano già dai tempi della scuola. 
Il leader ve lo ricordate tutti e, soprattutto, tutte: Joey Tempest. 
Bellissimo, biondissimo, ricciolonissimo.
In realtà non nasce con un nome così figo: si chiama Joakim Larsson, che in Svezia è tipo Mario Rossi e ha i capelli lisci.

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Il piccolo Joey ha una vita movimentata: suona, gioca a calcio, a hockey su ghiaccio, corre e vince trofei in go kart . A dodici anni va in America e gli rimane impresso il fatto che nessuno riesce a pronunciare il suo nome svedese, storpiandolo in Joe. 
Per questo, quando a diciassette anni entra nella band Force del suo amico chitarrista John Norum, Joakim abbrevia il nome in Joey e poi ci attacca Tempest ispirandosi a “The tempest” di Shakespeare, che ha visto in libreria.
Joey è un ragazzo carino che tende al sovrappeso, parla l’inglese perfettamente, suona tutti gli strumenti, in particolare chitarra, basso e tastiere, canta alla grande e si scrive praticamente tutte le canzoni da solo.
I Force suonano un hard rock parecchio duro, con alcuni passaggi quasi metal e sono il gruppo rock emergente più famoso della loro zona: si esibiscono in concerti pagati l’equivalente di 14 euro. 
In Svezia viene lanciato lo Swedish Rock Championship con in palio un contratto discografico, a cui si presentano alla gara 485 tra gruppi e solisti, che sarebbe perfetto per loro. Ma i Force hanno già rimediato troppe delusioni ai concorsi e decidono di non iscriversi. Inoltre anche il loro look, all’epoca, è ancora – diciamo – poco cool come i baffetti di Joey.

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Solo che Anita Katila, all’epoca fidanzata di Tempest, ci crede più del suo ragazzo e manda un demo.
I Force passano le prime selezioni e, per partecipare, cambiano il nome ispirandosi al live “Made in Europe” dei Deep Purple.
Gli Europe crescono esibizione dopo esibizione piegano tutti i rivali e, in finale, vincono per un solo voto. Joey viene eletto miglior cantante, John Norum miglior chitarrista: un trionfo.
Il produttore che ha organizzato il premio suggerisce alla band di cantare in svedese, tagliarsi i capelli e virare al pop, ma John Norum non ci vuole sentire e l’inglese, per tutta la band, è imprescindibile.
La band pubblica l’omonimo “Europe” e poi il “Wings of tomorrow”, con un successo crescente.  

                                     

Però manca il colpo decisivo, il salto fra le vere rockstar.
Per il terzo disco i fondi sono cresciuti, ma Joey non vuole lasciare nulla al caso: bisogna arrivare al grande pubblico. 
Lui e il bassista John Leven si mettono a dieta e perdono 30 chili a testa.
Joey non molla la lingua inglese, ma decide per un cambio di look: basta capelli lisci da metallari e virata verso le chiome mechate, vaporose e laccate. Il look diventa più glamour, via le borchie per abiti di pelle più stretti, gioielli argentati, colorito non più cadaverico, le espressioni truce da metallari sono un ricordo.

Il suono si arrotonda, le tastiere aumentano assoldando Gunnar Michaeli che si fa chiamare Mic, perché Gunnar suona troppo svedese. Mic ha un solo obbligo con la band: smettere di lanciarsi con il paracadute per non farsi male.
Manca il produttore e gli Europe avvicinano Bruce Fairbairn che sfornerà i grandissimi successi di Bon Jovi proponendogli il disco, ma Fairbairn, stavolta, non è lungimirante e dice che “non vede hit nel disco”.
Gli Europe passano alla produzione di Kevin Elson, ma ancora l’album non è finito e manca il singolo forte da lanciare: “Rock the Night” non convince del tutto, “Carrie” è troppo lenta.
È così arriva l’idea.
Due anni prima Joey Tempest aveva composto un motivetto di tastiere per il Galaxy, una discoteca che doveva metter qualcosa in sottofondo con cui intrattenere il pubblico in attesa di entrare.
Un giorno gli stessi Europe si trovano in fila per entrare nel locale e il bassista John Leven sente il riff scritto da Joey e se ne innamora. 
“Questa melodia è fantastica, dovresti scriverci una canzone”.
E Joey la scrive. 
Per il testo si ispira a “Space oddity” di Bowie, parlando di un’ultima partenza dalla Terra, direzione Venere, una fuga da un pianeta in distruzione. Quando l’ha finita corre da i suoi amici in auto, li fa salire e mette nella radio la musicassetta con il demo. 
“C’era qualcosa di unico in quella canzone, aveva una vita a sé” dirà il batterista Ian Haugland.
John Norum infila nel pezzo un assolo lungo e drammatico e Joey sceglie il titolo: The final countdown simbolo del conto alla rovescia verso il successo che la band anela a raggiungere e per il quale si gioca l’ultima grande chance.
Il disco tarda a uscire, perché Tempest ha problemi alla voce e il disegnatore pagato per la copertina non consegna il lavoro. Peraltro, quando finisce, gli Europe si rendono conto di aver speso un sacco di soldi per una copertina orribile: “Sembra che ci abbiano tirato per aria, aggiungendo qualche disegno!”.

La band inizia il tour nel modo peggiore, senza avere l’album nei negozi: una vera disgrazia.

The final countdown esce ormai a tour finito, il 26 Maggio 1986.
Ma, da quel momento, il disco invade il mondo. 
Il singolo diventerà una delle canzoni più famose degli anni 80 e della storia della musica rock, vendendo 12 milioni di copie e andando al numero 1 in 25 paesi. In Italia la canzone resta per quasi tre mesi in testa alle classifiche, in America la band vince tre dischi di platino.  

The final countdown spopola tra i ragazzini e, soprattutto, le ragazzine, sancendo l’affermazione del cosidetto “hair – metal” un hard rock che si è edulcorato insieme al look delle band per risultare fruibile non più solo a un pubblico di nicchia, ma trasformarsi in fenomeno di massa. Tre mesi dopo l’uscita dell’altrettanto celebrato “Slippery when wet” dei Bon Jovi sancirà il trionfo di un genere destinato a condizionare le classifiche mondiali fino all’inizio degli anni ’90.
Gli Europe pubblicano altri due album, “Out of this world” e il più ruvido “Prisoners in Paradise”, dischi differenti eppure eccezionali. 
Alla fine arriva lo scioglimento, quando il grunge soppianta l’hair-metal a suon di camice a quadri e suoni distorti,  chiome lisce e testi deprimenti. L’hard rock melodico diventa fuori moda, sinonimo di un’epoca pacchiana e vituperata, i suoi alfieri cascano uno dopo l’altro fuori dalle classifiche come capelli staccati da un parrucca.

Gli Europe si separano e Tempest incide un disco strepitoso di rock americano che si chiama “A place to call home (ascoltatelo, non ve ne pentirete)

Nel 2003, la band si riforma e trova ancora un buon successo con altri dischi  lontanissimi dal genere iniziale, più oscuri e settantiani, che vendono bene e conquistano un nuovo pubblico, a riprova che gli Europe non erano solo cinque riccioloni costruiti a tavolino, ma una band capace di esplorare per oltre 30 anni generi musicali differenti, sempre con successo.
Oggi Joey Tempest ha 52 anni, la voce non è più così pulita e la faccia così perfetta: è sempre bello, però. Qualche capello dei suoi compari è caduto, qualche ruga è spuntata sui visi rotondi, ma la band è la stessa, cinque ragazzi che si conobbero a Stoccolma e che quest’anno celebrano i 30 anni di “The final countdown”.

Gli Europe saranno a Roma e Milano, senza capelli cotonati, con tante canzoni dure in più, ma sempre quella lì, a chiudere lo show, quell’assolo di tastiere e quel coro che ha segnato la loro vita e, un pochino, anche la nostra.
Taratata – taratattatà 
We’re leaving together, but still is farewell.
E invece no, ragazzi, non è un addio, perché certe canzoni non ci lasciano mai.

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