Questa storia è cominciata con un uomo solo: il quarterback dei San Francisco 49ers Colin Kaepernick, che – un anno fa – ha deciso di non alzarsi durante l’inno americano, per dare un segnale contro la discriminazione e le violenze ai danni dei neri americani.
“Non starò in piedi per l’inno di un paese che opprime i neri e tutte le persone di colore”.

 

Kapernick
Kaepernick, che pure ha due zii e vari amici che lavorano come poliziotti, ha anche ingaggiato una lunga e aspra polemica con parte della Polizia americana, contestando la diversità di trattamento per i neri durante i controlli e il numero di vittime afroamericane negli interventi di Polizia. Prima e durante quel periodo ha indossato in alcune partite dei discutibili calzini che rappresentavano alcuni poliziotti in modo offensivo e caricaturale che, una volta immortalati in alcune foto, hanno inasprito ancora di più il conflitto. “Ma questo non deve distogliere l’attenzione dal tema principale” ha poi detto.
Successivamente, dopo aver parlato con un veterano di guerra, Kaepernick ha mutato e, in parte, ammorbidito il suo gesto, per rispetto a tutte le persone, in particolare membri di corpi militari, sacrificatesi nel nome dell’America: ha deciso così di inginocchiarsi durante l’inno del suo paese, sostenendo che il suo gesto aveva l’obiettivo di accendere la discussione sul tema ancora insoluto del razzismo negli Stati Uniti.


Il quarterback ha anche donato un milione di dollari a comunità bisognose.
La protesta di Kaepernick è stata discussa e quasi solitaria. L’atleta, la scorsa stagione, è stato aspramente contestato e fischiato dal pubblico ancor prima che per il tema originario della sua protesta (la discriminazione razziale e i rapporti tra polizia americana e persone di colore) per l’atto stesso quell’inginocchiarsi, visto come un inaccettabile oltraggio alla bandiera e ai simboli del paese.
Kaepernick è stato definito anti-patriottico, minacciato, isolato da gran parte delle NFL stessa e attaccato in modo durissimo e minaccioso da Donald Trump, allora in campagna elettorale.


Ma il futuro presidente non avrebbe mai immaginato quanto sta accadendo ora. Anzi, Trump dev’essere stato parecchio soddisfatto quando, quest’estate, Kaepernick è rimasto sorprendentemente senza squadra.
Certo, il giocatore non aveva impressionato nelle ultime due stagioni, ma le sue prestazioni restavano abbastanza sopra la media da non far immaginare l’assenza totale di ingaggi per un atleta costato milioni di dollari. Da più parti è stato ventilato che le scelte politiche di Kaepernick avessero avuto un peso decisivo nel compromettere il suo ingaggio e, forse, la sua carriera.
A questo punto qualcosa è cambiato.
In Agosto alcuni ufficiali di polizia di New York, tra cui il celeberrimo Serpico ispiratore del film con Al Pacino, ormai 81enne, hanno manifestato per “Kap”, sostenendo che la posizione del giocatore esprimeva una volontà di superare alcune delle più gravi ingiustizie che le persone nere subiscono da anni e rammentando bisogno di un confronto sui temi razziali ancora insoluti in America.
In queste settimane, all’inizio della stagione del football, altri giocatori neri hanno iniziato a inginocchiarsi in solidarietà a Kaepernick.
Trump, come di consueto, non ha esitato ad attaccare e ha tuonato contro queste condotte “irrispettose” e invitato i proprietari delle squadre a dire: ” via quei figli di puttana, sono licenziati!“.
Ma, stavolta, l’esasperazione di toni presidenziale ha ottenuto l’effetto contrario.
La protesta è esplosa e mutata, allontanandosi anche dalle originarie istanze di Kaepernick e assumendo un senso diverso, che mette insieme l’unione fra i giocatori dei team, la fondamentale idea americana di libertà di opinione e una fortissima, contestazione a Trump e ai messaggi d’odio che il suo linguaggio continua a diffondere dalla Casa Bianca.
La mancanza di una presa di posizione forte contro i nazisti americani dopo i drammatici fatti di Charlottesville e la morte di Heather Heyer (ne scrissi qui) ha contribuito a peggiorare il clima e aumentare l’ostilità.
L’America si è così ritrovata di fronte a scene mai viste: squadre intere di giganteschi e famosi atleti inginocchiati e abbracciati durante l’inno americano, in una presa di posizione politica inedita, clamorosa e mediaticamente devastante.
Giocatori di nota “fede” repubblicana hanno messo il ginocchio a terra, contro il Presidente. E poi giocatori bianchi e persino alcuni dei proprietari dei team si sono inginocchiati in un abbraccio coi loro giocatori.

Come se non bastasse, il campione dell’NBA Curry ha disertato l’invito alla Casa Bianca, insieme a metà dei Golden State Warriors; le star senza tempo LeBron James e Kobe Bryant hanno preso posizioni durissime contro Trump.
La protesta è quindi arrivata alla lega di basket femminile e alla lega nazionale di baseball dove sta ulteriormente detonando, coinvolgendo – anche qui – pure giocatori bianchi.
Il celebre cantante Stevie Wonder ha fatto la stessa cosa, inginocchiandosi a terra pochi giorni fa, in un Festival a New York, per solidarietà ai giocatori della NFL.
“Stanotte io metto a terra un ginocchio per l’America. Ma non solo uno, io li metto entrambi, a terra. Lo faccio in preghiera per il nostro paese, per il nostro futuro, per i leader del mondo e il nostro pianeta. Amen”.

 

La presidenza Trump ora accusa pesantemente un colpo senza precedente e, stando ai sondaggi, non ha mai avuto una così bassa popolarità.
“Mai ricordo l’America così divisa dai tempi del Vietnam” ha detto il coach dei Golden State Warriors.
La forza di queste immagini mi ricorda la celebre foto di Messico 1968, quando Tommie Smith e John Carlos alzarono il pugno chiuso al cielo per protestare contro la discriminazione razziale negli Stati Uniti.
Mai come oggi le parole con cui John Carlos ha spiegato il suo gesto suonano attuali.
“Noi potevamo andare in giro e vincere medaglie.
Noi potevamo andare in giro e vincere guerre.
Noi potevano infrangere tutti i record del mondo e potevamo essere eroi fintanto che stavano dentro le righe della pista.
Ma una volta fuori dal terreno di gara, non eravamo che le solite antiche nullità.
Ero molto rattristato da questo e sentivo che qualcuno doveva alzarsi in piedi, prendere una posizione e dire al pianeta terra: “Hey, mondo, gli Stati Uniti non sono quello che tu potresti pensare siano per i neri e le altre persone di colore”.

Il gesto di Tommie Smith e John Carlos ha segnato la storia insieme a quello del terzo uomo, l’australiano bianco Peter Norman.
Noi abbiamo sentito la storia di questi atleti da nonni e genitori.
Ma, credo, potremmo raccontare ai ragazzi di domani dei giorni in cui i campioni si misero in ginocchio, contro un odio da respingere senza paura.

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