di Luca di Luca

“Proprio non mi va giù che un esordio di tale livello sia stato scritto da uno sbirro”. L’esordio in questione era Gli amici di Eddie Coyle, un noir pubblicato nel 1970 che molto avrebbe influito sul destino della crime fiction americana e del cinema pulp, ispirando scrittori del calibro di Elmore Leonard e registi come Quentin Tarantino. Lo “sbirro” autore di questo piccolo capolavoro del poliziesco si chiamava George V. Higgins e, prima di diventare il narratore del sottobosco criminale della costa Est degli Stati Uniti, era stato cronista di nera e successivamente procuratore distrettuale a Boston. E colui che pronunciò questa battuta – che è un curioso giudizio critico, insieme elogio e sfottò, apprezzamento e lagna – era nientemeno che Norman Mailer, grande scrittore e intellettuale del secondo Novecento americano, il quale evidentemente era rimasto spiazzato dalla bizzarra contraddizione tra gli esiti del libro e la biografia del suo autore.

Bene. Quando ho letto A viso coperto, il romanzo d’esordio dello “sbirro” genovese Riccardo Gazzaniga, non ho potuto fare a meno di pensare alla frase di Mailer. Perché, come per il libro di Higgins, è una definizione che gli calza a pennello.

Genova, mese di gennaio, tardo pomeriggio. Una fredda domenica qualunque. Una partita insignificante del Campionato nazionale dilettanti, Sestrese-Spezia, in un campetto dimenticato da Dio. Un gruppuscolo di ultrà genoani – in cerca dell’antico spirito della curva, dei vecchi valori, della “mentalità” –  è lì in attesa. Si prepara. Non dovrebbero nemmeno esserci – dopotutto il Genoa è in serie A, mica nei dilettanti – ma hanno vecchi conti da regolare e qualcosa da dimostrare: che fanno sul serio. La partita è terminata, e i tifosi spezzini stanno andando ai pullman. L’agguato è stato pianificato per bene: strategia e attenzione per il dettaglio. Il gruppo è composto solo da una ventina di persone, ma grazie alla determinazione e alla sorpresa, riesce ad avere la meglio. Gli spezzini le buscano di santa ragione. Intervengono i celerini. Cariche, altre mazzate, cinghie e bastoni, lanci di oggetti. Nella foga della battaglia, qualcuno dei genoani riesce a fregarsi lo striscione degli odiati tifosi rivali. La Digos, intanto, fa le riprese. Gli scontri durano appena qualche minuto. E, alla fine, i genoani se la squagliano. Ma hanno vinto. Sono loro, i veri ultrà.

E questo è solo l’incipit.

Riccardo Gazzaniga, sovrintendente della Polizia di Stato, in servizio al Reparto mobile di Genova, deve avere il gusto delle sfide difficili, e sicuramente ha molto fegato. Ha provato a narrare un mondo forse irraccontabile, ha scelto di maneggiare una materia incandescente, delicata e pericolosa come esplosivo al plastico, ha deciso di mettere a nudo i meccanismi, i retroscena, le verità nascoste del conflitto che scuote da decenni l’universo del calcio e, con esso, la società italiana: il conflitto tra ultrà e forze dell’ordine. Per farlo, ha scelto di ricorrere a uno strumento ambiguo e, al tempo stesso, potente: il romanzo. E così, ecco che ci ritroviamo di fronte a uno strano oggetto letterario: un romanzo sullo scontro tra tifosi e poliziotti scritto da un celerino. Sembra un paradosso, un assurdo. Qualcosa di impensabile. E forse lo è. Ma, soprattutto, sembrava qualcosa di irrealizzabile. Come una sfida persa in partenza. Eppure Gazzaniga è riuscito a metterlo in parole. E il suo libro, sorprendentemente, funziona.

Non bastasse, il teatro dove si svolgono le vicende della storia non è nemmeno un posto qualsiasi. È Genova, la città del G8, la città della sospensione della democrazia, dell’omicidio di un ragazzo innocente, Carlo Giuliani, della mattanza alla Diaz, dei pestaggi arbitrari e delle torture, delle menzogne di Stato e della repressione generalizzata, la città in cui la politica italiana e la polizia italiana hanno perso ogni credibilità, ogni dignità, ogni autorevolezza. Come abbia fatto, uno “sbirro”, a imbastire una narrazione sulle rovine della “macelleria messicana”, sulle macerie della nostra storia politica recente, evitando di incappare nella trappola del romanzo “ideologicamente orientato”, del falso racconto a tesi, del trattatello supponente camuffato da fiction, è ciò che queste note vogliono cercare di mostrare.

Il tifo nella “Nord” non è più lo stesso. Da tempo. Un gruppo di ultrà – cani sciolti nel mare magnum della tifoseria genoana desiderosi di creare una propria cellula, e ottenere così visibilità e riconoscimento – ha deciso che le cose devono cambiare. Meglio, devono tornare a essere quelle di una volta. L’agguato agli spezzini è solo il preludio di ciò che hanno intenzione di fare. L’antico spirito ultrà deve tornare a vivere. E saranno loro a infondergli quella vita che anni di repressione poliziesca hanno cancellato. Anche a costo di perdere tutto.

Dall’altra parte ci sono gli sbirri. I nemici per eccellenza. Quelli del Reparto mobile, ma anche quelli della Questura. Contrastare gli ultrà è il loro mestiere. Lo faranno con ogni mezzo, anche giocando sporco. In guerra non possono esserci esitazioni, né dubbi, né passi indietro. La guerra si può solo vincere o perdere.

Le esistenze di celerini e ultrà si intrecciano così in una danza armata che non conosce tregua. Intorno, si muovono i personaggi femminili del libro, che restano sullo sfondo –  come donne che aspettino a casa il ritorno del soldato – e tuttavia conservano quella lucidità e quella umanità che spesso mancano ai loro compagni. Intorno, Genova assiste muta al ripetersi di altre battaglie, memore della catastrofe del G8.

Ce n’è abbastanza per temere il peggio. Che, puntualmente, arriverà. Una volta innescato, un ordigno corre inesorabile verso la deflagrazione.

Che non vi venga in mente Ultrà, mediocre pellicola di Ricky Tognazzi risalente al lontano 1991, con un’interpretazione di Claudio Amendola che più fasulla di così non si poteva. Nel libro questo maldestro tentativo di approccio al mondo del tifo viene citato, più o meno in questi termini: “Quel vecchio film di merda”. No, siamo distanti mille miglia da un cinema di bassa qualità, con attori paraculi e nessuna sostanza narrativa.

A viso coperto è un romanzo corale. Tutti i personaggi principali – ultrà, tifosi, celerini, ispettori della Digos, funzionari di polizia – danno voce alla storia, ognuno dal suo punto di vista, alternandosi in una serie di brevi capitoli che costituiscono la struttura del libro. È il suo primo elemento di forza: il racconto dei fatti procede da una pluralità di voci che si equivalgono, sono tutte sullo stesso piano, e parlano tutte la medesima lingua. Un procedimento in grado di restituire la complessità del mondo narrato. Non ci sono buoni e cattivi, non c’è il bene che fronteggia il male: gli “infami”, le “merde”, sono dall’una e dall’altra parte, tra gli ultrà e tra gli sbirri. E trasversali sono anche le appartenenze politiche. Non esiste una giustizia superiore, un’istanza che giudica e condanna dall’alto i tifosi per le loro azioni, o i poliziotti per la loro violenza. Tutti sono presi nella rete di un conflitto più grande. Di un potere che, quello sì, li sovrasta per davvero.

Lui aveva provato a illudersi di essere un “professionista della sicurezza”, come ripetevano al ministero. Di “servire e proteggere”, come dicevano gli americani. Ma […] i celerini, in fin dei conti, erano quelli che picchiavano la gente. Probabilmente si trattava solo di accettarlo e smetterla con le seghe mentali. O di scriverlo in un libro. [p. 57]

Era facile illudersi di essere i buoni che lottavano contro i cattivi con armi e passamontagna. Recitare la parte dei guerrieri coraggiosi che ristabilivano l’ordine vincendo le oscure forze del male. Ma se avesse avuto ragione Elisa? Se loro, i celerini, fossero solo pedine che servivano a mostrare la faccia cattiva in nome di qualcuno che non aveva il coraggio di apparire? [p. 350]

È l’interrogativo che serpeggia lungo tutto il libro. Interrogativo che contiene in sé l’acquisizione di una consapevolezza senza la pretesa di un’autoassoluzione: le “pedine” non hanno alcun potere decisionale, è vero, ma non per questo smettono di picchiare e fare male, di cercare, di volere lo scontro, proprio come fanno gli ultrà.

Si ricordava ancora la paura, la sorpresa, l’umiliazione. E la rabbia, la voglia di vendicarsi. Inutile girarci intorno: quando ti pestano e ti fanno male, vorresti solo ridargliele indietro. Altro che garantire l’ordine pubblico. Mica lo poteva scrivere, questo, nel suo libro. [p. 73]

E invece sì. Tutto nero su bianco. Lo “sbirro” Nicola Vivaldi – trasparentissimo alter ego dell’autore, che nella finzione (meta)letteraria sta appunto scrivendo un libro su ultrà e polizia – l’ha scritto eccome. Nessuna clemenza, nessuna magnanimità nei propri confronti, né nei confronti dei colleghi o dei superiori. Se c’è una “verità” da raccontare, la si racconta. Se c’è da aprire un occhio su un mondo duro, violento, fatto di battaglie e soffiate, di soprusi e inganni, di viltà e coraggio, se ne aprono due. Se c’è da descrivere una guerra che si è combattuta, la si descrive, senza trucchi, senza schermi, senza infingimenti. A costo di uscirne malconci. E svelati nella propria nudità di “playmobil” al servizio del potere.

Ditemi voi se queste sono parole da sbirro. O non, invece, bagliori che illuminano spezzoni di realtà che pochi possono o vogliono vedere, e che Gazzaniga ha raccontato.

Dopo Hemingway, per lo scrittore parlare solo di ciò che conosce è diventato una specie di obbligo. Nel romanzo di Gazzaniga questa regola si espande e diventa: parlare solo di ciò che si è visto “da dentro”. È un altro, non meno importante ma assai più evidente, pregio del libro. Nessuno sbirro – e nessuno scrittore – aveva mai fissato lo sguardo sui meccanismi interni della polizia italiana, con la stessa fredda esattezza di un medico legale che pratica un’autopsia. Nulla viene tralasciato, e il celerino, questa macchina costruita per dare mazzate di Stato, questo ultimo anello della grande catena repressiva, si staglia davanti ai nostri occhi in tutta la sua debolezza e impotenza e dipendenza. Dai superiori, dal potere, dai nemici, dalla violenza. È un ritratto spietato, che non si eleva mai ad agiografia, ma, al contrario, taglia l’anima del poliziotto come un rasoio la gola della vittima.

Tuttavia, la cosa più sorprendente non è che l’autore parli del mondo che conosce dall’interno, ma che riesca a dare una rappresentazione degli ultrà più che verosimile e molto convincente. Quasi al punto da sembrare che li conosca come se stesso. Il celerino e l’ultrà: due identità opposte, che nella dialettica del conflitto finiscono per assomigliarsi. Per assimilarsi. Per riflettersi l’uno negli occhi dell’altro, come in uno specchio rovesciato. Forse è da qui che nasce quella capacità di essere autentici anche quando si parla del “nemico”.

Non possiamo comportarci sempre da marionette obbedienti. Non possono chiuderci anche le curve, militarizzarle. Sono uno spazio sociale pure quelle. Un luogo di aggregazione. Lo sai che i ragazzi allo stadio hanno fatto anche cose belle. Oltre alle coreografie, intendo. Raccolte di fondi, attività solidali […] Tutti parlano a vanvera, senza sapere niente. Perché non dicono che quando c’era da spalare, dopo l’alluvione, per strada sono andati un sacco di ragazzi della curva, eh? Oppure con gli operai, a manifestare. Mica è venuta la gente che sta in casa a giudicarci! [p. 231]

Gli ultrà non sono soltanto un manipolo di fanatici della propria squadra che muove all’assalto delle “merde”. Certo, come vedremo, il fondamento della loro identità è soprattutto questo, è la regola di Acab. Ma che al lettore venga detto altro, che gli venga mostrato cosa c’è dietro e a lato della curva, è un elemento che aggiunge una sfumatura di verità ulteriore a un racconto che non smette mai di essere lucido, onesto, e di provare a tenere un sorta di “oggettiva” equidistanza. Nonostante sia un dispaccio dal fronte.

La mentalità. È l’ossessione inevitabile dell’ultrà. La sua fissa, la sua ragion d’essere. Senza di essa, l’ultrà non è perduto. È inesistente.

Abbiamo creato questo nuovo gruppo per far rivivere una certa mentalità. Roba che secondo me ci siamo dimenticati. Le regole di una volta, cioè… nessuna regola! E gli scontri. Perché è inutile che raccontiamo delle musse, gente. Fare gli ultrà significa che nessuno ti mette i piedi in testa e tu sei pronto ai casini con le altre tifoserie. E poi combattere con gli sbirri, sempre. [p. 295]

Una serie di elementi e valori compongono il quadro della “mentalità ultrà” e tutti ci vengono mostrati: la difesa della curva, il conflitto con le tifoserie rivali, la libertà dalle imposizioni delle forze dell’ordine, il rifiuto della “infamità”, l’esaltazione del coraggio, il senso dell’onore e della fratellanza, le “palle” per andare dritti alla battaglia, l’odio per le divise, la mistica dello scontro. Soprattutto quest’ultimo punto, che riassume e compendia tutti gli altri, che costituisce l’essenza stessa dell’ultrà.

Solo se eri stato nella mischia, in mezzo al fumo e alle bottiglie. Solo se avevi visto gli occhi dell’uomo che ti fronteggiava con una cinghia o un manganello. Solo se avevi lottato per non cedergli neppure un centimetro. Ecco, solo allora potevi capire ciò che nessun altro avrebbe capito. Che fare gli scontri era troppo bello. [p. 232]

Detestava i merdosi commenti dei giornalisti: “delinquenti”, “folli”, “teppisti”, “esaltati”, “gente che non ha nulla a che vedere con il calcio”. Solo su questo forse avevano ragione, perché la loro battaglia niente c’entrava ormai con il calcio, le partite, i soldi e tutte le loro schifezze. Era una lotta per continuare a esistere. Una resistenza contro l’oppressione legalizzata. [p. 483]

Persino il calcio, persino i colori della propria squadra, impallidiscono fino a svanire di fronte alla necessità della lotta, del conflitto. Gli ultrà – per come ci vengono narrati in A viso coperto, ma è una narrazione che sa di cose reali – sono incastrati nella propria immagine, fabbricata ad hoc, di combattenti disposti a tutto, di fuorilegge al di sopra di qualsiasi regola che non sia autoimposta, perennemente appesi al ruolo del guerriero. Ma è un’immagine fragile, un mito sempre sul punto di sbriciolarsi al contatto con realtà più grandi. Concetto espresso nel libro da un vecchio ultrà leader della Fossa, ormai in pensione:

Parliamo poco di calcio, però. Sono cambiate troppe cose. E poi mi sono rotto di queste stronzate. Dopo che sei stato in mezzo a certa gente di merda, ti fanno ridere quelli che giocano ai duri. Mi fa ridere pure com’ero io, sai?

– Perché?

– Pensavo di essere uno tosto. Uno con le palle, che comandava. Ma in carcere i grilli per la testa ti passano. Almeno nel carcere che ho fatto io. [p. 279]

“Quelli che giocano ai duri”. Chissà che tutto non si riduca a questo: un gioco. Un gioco molto pericoloso, però. Un gioco in cui si rischia la pelle.

Ciò nonostante, l’universo del romanzo è popolato di termini che rimandano alle regole, oltre che al conflitto. È un universo soffocato dalle norme e dall’infrazione delle norme. Dal controllo e dalla repressione, dalla resistenza e dall’opposizione. Così, a caso: prefiltraggio, diffida, Daspo, telecamere, carica, schieramento, contingente, squadra, avviso di garanzia, processo, interrogatorio, carcere, relazione di servizio, scudo, lacrimogeno, casco, anfibio, manganello. E all’opposto: bastone, cinghia, fibbia, lama, cintura, bomba carta, mazza, tubo, striscione, tessera del tifoso, pietra, bottiglia, libertà, scontri, prima linea, fuga, volto coperto. Due eserciti terminologici, concettuali e materiali che si fronteggiano per tutto il libro. Senza veri vincitori né vinti.

A viso coperto è un testo lungo: 530 pagine che filano veloci come un proiettile e sono fitte di azione come una sassaiola, compresse in una cronaca tutta dialoghi e zero descrizioni, con qualche concessione all’introspezione psicologica. È un romanzo che narra di una guerra che si combatte ogni settimana, negli stadi e nelle strade e nelle piazze d’Italia, una guerra senza quartiere imposta da altri che miete vittime su entrambi i fronti, ma non su quello del potere. Ed è un romanzo che non fa sconti a nessuno, che aggredisce la complessità di un fenomeno senza ricorrere a interpretazioni superficiali e preconfezionate. È un libro politico, antipolitico o extrapolitico? Probabilmente è tutte e tre le cose insieme. O nessuna delle tre. Anche quando affronta tematiche socio-politiche rilevanti – destinate, per così dire, a essere indagate con gli strumenti delle scienze sociali – la letteratura non deve e non può ghettizzarsi in una visione preconcetta, in una teoria prestabilita in cui ingabbiare aprioristicamente il mondo.

La letteratura serve a raccontare storie. E se lo fa bene, è tutto quello di cui abbiamo bisogno.

P.S. Per chi è affezionato a questo genere di cose, e abituato a giudicare il valore di un’opera sulla base dei riconoscimenti ricevuti, segnalo che l’autore del libro di cui abbiamo parlato ha vinto la XXV edizione del Premio Italo Calvino, il premio più prestigioso – a quanto mi risulta – esistente in Italia per gli scrittori esordienti.

 

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