Perché diciamo “avere il magone”?
La prima ipotesi è che derivi dalla parola che identifica il ventriglio dei polli o lo stomaco dei bovini, dal tedesco Magen.
Ma la seconda ipotesi, come accade spesso, è parecchio più suggestiva.
Secondo questa teoria il nome deriverebbe da Magone Barca, fratello minore di Annibale e Asdrubale Barca e grande condottiero militare anche lui.
Magone invade l’Italia diverse volte, in aiuto di Annibale.
Sembra che attraversi il fiume Po, nel 218 a.C, passandolo a nuoto coi suoi soldati, per poi sconfiggere i romani nella famosa battaglia della Trebbia.
Partecipa alla battaglia di Canne, come comandante insieme ad Annibale, al centro dello schieramento cartaginese. Poi torna in patria con gli anelli dorati dei romani morti, per dimostrare ai senatori di Cartagine i trionfi del fratello nel meridione.
Ma dopo i primi successi, i Cartaginesi iniziano a perdere diverse battaglie prima in Spagna e poi in Italia, fino alla tremenda sconfitta del Metauro dove muoiono 56.000 dei loro soldati fra cui il fratello Asdrubale: i romani gli tagliano la testa e la mandano ad Annibale come monito.
L’ira del grande condottiero è feroce e la rappresaglia brutale viene affidata a Magone che attacca Genova nel 205 a.c. via mare con navi da cui scendono fanti e cavalieri: distrugge le sue mura, la incendia e la rade al suolo portando tutto il bottino a Savona.
Ma i Romani, ormai, stanno attaccando proprio Cartagine e Magone, dopo aver combattuto vicino a Milano, rientra in patria in nave e qui muore, per i postumi delle ferite riportate in battaglia, probabilmente a poco più di 30 anni.
Sembra che proprio il dolore dei genovesi nel vedere la loro città distrutta abbia dato origine all’espressione “avere il magone” come un senso di dolore, malinconia e triste rimpianto per qualcosa di non più reparabile.
Petrarca contribuì a diffondere l’espressione e la figura del condottiero, quando gli attribuì un celebre e bellissimo lamento sulla labilità dei destini dell’uomo nel suo poema Africa.
“A che giovò portare le armi contro il Lazio potente,
distruggere con fiamme le case,
turbare i patti del vivere umano,
sconvolgere le città con triste tumulto?
A che mi serve aver costruito alti palazzi adorni
d’oro su mura di marmo,
se io dovevo per sinistro destino
morire così sotto il cielo?
Carissimo fratello,
quali imprese prepari nell’animo,
ahi, e ignaro dell’acerbo fato, ignaro
di me? – disse,
lo spirito s’alzò, libero nell’aere
tanto da poter rimirare dall’alto a pari distanza
e Roma e Cartagine,
fortunato di partire anzitempo,
prima di vedere l’estrema rovina e il disonore
che attendeva le armi famose
e i dolori del fratello e i suoi insieme
e della patria”.
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