Il 18 Ottobre del 1968 l’aria è fredda e tira vento forte, sullo stadio Olimpico di Città del Messico.
Un vento che sembra annunciare tempesta, anche se non è questo, che sta per succedere.
Quando va in pedana per il primo salto della sua finale di lungo, Bob Beamon è reduce da una notte parecchio movimentata: ha fatto sesso per ore con la sua amante Gloria, mentre la moglie Melvina lo cercava per tutta Città del Messico come fa da giorni, invano.
Bob della moglie non vuole saperne, visto che gliel’ha fatta sposare sua nonna, con un matrimonio combinato, facendogli credere che fosse incinta.
Sua nonna, del resto, non è neppure sua nonna: Bob è figlio illegittimo di una relazione clandestina della madre, mentre il padre era in carcere per rapina.
La mamma è morta che Bob era piccolissimo e la nonna paterna lo ha cresciuto, nel tempo libero dai giochi di azzardo.
Questa nonna gli vuole bene, certo, ha cercato di difendere Bob dai pestaggi di suo padre e dai guai (una volta, per alcune ore, lo hanno persino accusato di omicidio in un rissa fra gang) ma lo ha fatto sposare alla donna sbagliata pensando di fare il suo bene.
La stessa nonna, però, è quella che lo ha salvato dal carcere, quando Bob è finito a processo per aver pestato un compagno di scuola e attaccato al muro una professoressa: il giudice, vedendo la signora in lacrime accanto al nipote, ha deciso di non mandare Bob direttamente in prigione ma di dargli un’ultima chance. Lo ha spedito in un riformatorio dove i professori erano tutti cinture nere di qualche arte marziale, per gestire i loro studenti.
In quel riformatorio di New York Bob ha capito di non voler essere come i suoi compagni di sventura, spacciatori e violenti e teppisti destinati alla rovina. Per anni ha invidiato a quella gente i vestiti sgargianti e le belle auto, lui sempre con addosso abiti consunti e senza un mezzo su cui girare.
Ma, imparando a leggere e scrivere, si è sentito diverso da quella gente e ha iniziato ad andare a scuola con regolarità facendosi notare anche per le sue doti atletiche fino ad allora limitate ai campi di cemento di New York.
E così, anno dopo anno, l’ex teppista che rischiava di morire ammazzato è cresciuto come atleta fino a guadagnarsi le Olimpiadi e adesso è lì, sulla pista di Città del Messico, per il primo salto della sua finale dopo la sua notte di sesso.
Secondo la leggenda sarebbe pure uscito per bere qualche tequila, per calmarsi dall’angoscia pre-gara che lo aveva assalito.
Non ha un allenatore Bob, perché lo hanno sospeso dell’Università di El Paso dopo che non ha voluto partecipare a un meeting organizzato da una Università di mormoni che discriminavano i neri.
Per questo motivo il suo compagno e rivale, il fortissimo saltatore Ralph Boston – già campione olimpico otto anni prima – è l’unico ad averlo sopportato e supportato, aiutandolo a prepararsi ai Giochi.
Ma ora Bob è solo, su quella pista.
I tre saltatori prima di lui, disturbati dal vento, hanno segnato altrettanti salti nulli.
Bob Beamon fissa la pedana, la guarda, immagina il salto.
Poi prende la rincorsa, stacca, spinge con le gambe e poi non si limita a saltare: Bob fa quello che passerà alla storia come “The Jump”.
Il Salto.
Tommie Smith, l’atleta che aveva alzato il pugno chiuso sul podio dei 200 racconta di essersi fermato per un attimo a guardare Beamon e di aver pensato “Oddio, quell’uomo sta volando”.
“Si tratta di un salto enorme!” urla il telecronista americano Ron Pickering in collegamento.
Beamon distende tutto il corpo in aria e quando atterra, non lascia nemmeno un centimetro, balzando in avanti per due volte, senza sfiorare la sabbia con il sedere.
Il giudice non riesce subito a misurare la distanza, perché il misuratore elettronico non basta a registrare il salto e allora si recupera un decametro a nastro da salto triplo per misurare.
Quando viene annunciata la misura decimale Beamon non la capisce, perché è abituato a piedi e pollici.
Ci vuole il suo compagno di squadra Ralph Boston per comunicargli quanto ha saltato: otto metri e novanta centimetri, migliorando di oltre mezzo metro il record del mondo.
Beamon, quando capisce cosa ha fatto si sente male, ha un crollo nervoso. Si mette a piangere, abbracciando Boston e crolla a terra, baciando la pista e urlando “Ditemi che non sto sognando”.
Un giornalista americano definisce Beamon con l’espressione “un uomo che ha visto un fulmine”, che da allora gli si incolla addosso.
Il campione olimpico uscente, il britannico Lynn Davies, dice sconsolato a Beamon “Tu oggi hai distrutto questa specialità”.
Ralph Boston, il suo compagno che ha contribuito a creare quel prodigio di atleta, decide quel giorno che Bob ha portato la sfida dove lui non potrà mai arrivare. “Quattordici anni di salti possono bastare” dice Boston, annunciando il ritiro.
Eppure Bob Beamon, l’uomo che ha volato, dopo le Olimpiadi del 1968 ha le ali tarpate.
Come ha scritto quel giornalista presente allo stadio “Boh ha visto il fulmine” e il fulmine lo ha folgorato.
Il primatista del mondo scopre che quel salto nella leggenda non basta a renderlo ricco e famoso come sognava. Vede persone diventare celebri alle sue spalle, come il fotografo che ha scattato l’immagine di lui in volo, che (su quella foto) ci costruisce sopra un impero.
Ma Bob non ci riesce.
Lascia la moglie, perde l’amante, si risposa. Vive lunghi periodi di angoscia, compra una grande quantità di quei vestiti che ha desiderato sin da ragazzo, ma non salta più come prima, anche per via di un infortunio che si trascina dietro troppo a lungo, abbuffandosi di celebrità, gareggiando ovunque quando – invece – dovrebbe solo riposare e stare fermo.
Beamon non si qualifica ai Giochi di Monaco 1972 e smette con l’atletica senza aver più superato gli otto metri e ventidue e senza aver mai avvicinato il suo incredibile record.
Bob impiegherà anni per trovare pace e ci riuscirà solo quando smetterà di voler prendere dalla vita e deciderà di dare.
Lo farà dedicandosi all’aiuto di ragazzi disadattati e a rischio com’era stato lui cercando di trasmettere loro l’idea che c’è un campione in ognuno di noi. E che non esiste solo una pista e un singolo momento di gloria ma una vita intera in cui emergere.
“Se io ho realizzato un sogno, potete farlo anche voi. I campioni non sono fatti dai risultati sulla pista d’atletica, ma dalle cose che concludono e dal modo in cui usano le loro capacità nella vita di ogni giorno”.
Beamon ha trovato anche conforto nell’arte, disegnando e diventando dirigente dell’ ”Art of Olympians”, galleria che ospita opere d’arte create da atleti.
Si veste ancora in modo elegante ed eccentrico, ma – negli anni – ha sistemato anche i suoi problemi sentimentali.
Si è separato è risposato diverse volte, è difficile raccapezzarsi fra le donne della sua vita.
Ha trovato la pace con Milana, la sua ennesima e ultima moglie, con cui scritto “The man who could jump” la sua potente autobiografia.
“Sono l’uomo che poteva volare, e oggi sto ancora volando” è l’ultima frase del libro.
Il primato pazzesco di Beamon è stato infranto il 30 agosto 1991, quando Mike Powell ha salta 8,95 ai Campionati del mondo di Tokyo.
Cinquant’anni dopo, il salto di Beamon rimane ancora uno dei più grandi momenti di sempre, nella storia della sport.
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NOTA PER I LETTORI
La storia di Bob Beamon è una delle vicende che narro nel mio podcast gratuito “A pugni chiusi”, dedicato alle Olimpiadi del 1968 e disponibile sul portale storielibere.fm
Alcune delle mie storie sportive migliori sono incluse nel nuovo libro “Abbiamo toccato le stelle”, edito da Rizzoli nel 2018.
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