È la sera del 16 Giugno 1816 quando il buio porta con sé una delle notti più horror e decisive della letteratura.
A Villa Diodati, sul lago di Ginevra, alloggiano George Byron e il suo segretario e medico personale, John William Polidori.
Byron è, in quel momento, una rockstar dell’arte: bello, adorato da uomini e donne con cui ha molteplici relazioni, dedito a ogni eccesso, Lord Byron è insieme poeta, dandy, uomo politico, nuotatore, pugile, dongiovanni. Ma è anche personaggio volubile e intemperante che la sua amante Carolina Lamb definirà “pazzo, cattivo e pericoloso da frequentare”.
Il suo medico John Polidori, è anche lui bello, colto, elegante e polemico. Sente costantemente l’inferiorità e la soggezione verso il celebre artista cui si accompagna e le loro liti sono frequenti e violente.
“Ti prego,” chiede Polidori a Byron un giorno, “cosa c’è eccetto la poesia che io non possa fare meglio di te?”.
“Prima di tutto,” replica Byron, “posso centrare con un colpo di pistola il buco della serratura di quella porta – secondo, posso nuotare in quel fiume fino a quel punto laggiù – e terzo, ti posso pestare per bene.”
Alla vicina Maison Chappuis abitano invece l’altro celebre poeta Percy Shelley, la futura moglie Mary Wollstonecraft e Claire Clairmont, sorellastra di Mary.
I tre hanno raggiunto la Svizzera nel loro Grand Tour europeo da aspiranti eroi romantici, un viaggio a base di letture, scritture, arte.
Ed eccessi.
I tre sono uniti da un legame ambiguo. Mary è in aperto conflitto con la sua famiglia e con il padre William Godwin, proprio per la relazione con Percy, che è già sposato. Ma Percy è un uomo che teorizza l’amore libero e anche il rapporto a tre con Mary e Claire è piuttosto ambiguo. Sembra che anche loro, come Byron e Polidori, non si sottraggano ad abusi di alcol e droghe.
Claire, peraltro, è anche la giovane amante di Byron, cui nel giro di pochi mesi darà una figlia.
È proprio Claire, che in questa estate ha intrecciato una relazione con Byron, a spingere per fare incontrare i due gruppi e così, la sera del 16 Giugno 1816, a Villa Diodati, questi cinque giovani intellettuali si ritrovano a leggere davanti al fuoco storie di fantasmi, mentre fuori infuriano piogge e bufere.
(da sinistra a destra: Byron, Polidori, M. Shelley, P. Shelley, Claire Clairmont)
Si tratta di un’estate celebre per il freddo dovuto a un’eruzione vulcanica in Indonesia che ha prodotto una sorta di “schermatura” del sole.
Il gruppo, dopo la lettura, è così eccitato che decide di sfidarsi a scrivere storie gotiche.
Ne viene fuori una notte decisiva, per la letteratura horror. Ma a renderla tale non saranno i due uomini più celebri e (sulla carta) più talentuosi della compagnia: Lord Byron e Percy Shelley non riescono a produrre nulla più che frammenti.
Mary Shelley, che ha solo 19 anni, ha invece un’idea che le si è manifestata in una sorta di sogno a occhi aperti.
“Vidi con gli occhi chiusi, ma con una mente ben sveglia, il pallido studioso di un’arte profanatrice inginocchiarsi accanto al risultato della sua opera, vidi l’orribile fantasma di un uomo disteso dare qualche segno di vita, per via di un potente meccanismo: lo vidi agitarsi, ancora informe ma già quasi umano”.
Mary non ha la certezza che l’idea possa diventare un romanzo, ma sarà Percy a insistere perché scriva la storia il cui spunto è emerso in questa notte magica.
La Shelley lavora al testo per due anni e la creatura composta da pezzi di cadavere prende vita nella sua fantasia, dando il là a uno dei romanzi più importanti della storia della letteratura: “Frankenstein”, che non è il nome della creatura, ma quello di Victor, giovane e audace scienziato che sfida la morte ricreando la vita, senza pensare alle conseguenze del suo gesto. L’essere che ha creato sfugge al suo controllo e chiede di essere accettato e amato dagli uomini.
Quando non ottiene quell’amore, scatena la sua furia dolente e assassina.
Chi legge il libro oggi si trova molto spiazzato di fronte alla rappresentazione del mostro che nulla ha a che vedere con quello pieno di tagli e cuciture, con la fronte piatta e l’espressione ottusa, l’essere capace solo di emettere versi e brontolii cui parte del cinema ci ha abituato.
In “Frankenstein” la creatura è orrenda, ma impara a parlare ascoltando di soppiatto le lezioni di lingue impartite a una donna straniera (!) e si forma leggendo niente meno che “I dolori del giovane Werther” e “Le vite parallele” di Plutarco, sfidando Victor in lunghi duelli ben più dialettici che fisici.
Le scene di azione sono poche e mancano quasi sempre di sangue e crudeltà, al massimo hanno grande potenza visiva come la prima apparizione del mostro fra i ghiacci eterni del polo nord, alla guida di una slitta trainata dai cani. O le sue improvvise, spaventose manifestazioni per tormentare Victor come un’implacabile maledizione.
“Frankenstein” è la storia di una lunga sfida nel tempo e dello spazio che per l’ambizioso e stolto Victor – consumato dalla sua hybris – quanto per l’orrida creatura reietta, diventa l’unica ragione di vita. Ma il romanzo può essere letto anche come la storia di un doloroso abbandono, simile a quello vissuto da Mary, la cui madre era morta poco dopo averla data alla luce e che, una volta cresciuta, era stata allontanata dalla famiglia per via della sua relazione sconveniente con quel Percy che proprio suo padre le aveva fatto conoscere.
La cosa più moderna e toccante del libro è che la Shelley riesce a portare una forma di pietas dentro la sua storia gotica, spingendoci a provare qualcosa di simile alla compassione anche nei confronti del mostro. Per quanto spaventoso, “il demone” è un essere sofferente e solo, cui non può non andare almeno una parte della nostra comprensione.
Il libro, dopo l’uscita, è subito un successo, ma viene erroneamente attribuito a Percy, per via della dedica a William Godwin, che ne era stato il maestro. Quando si comprende che quella dedica era stata scelta dall’autrice Mary, figlia di Godwin, il romanzo desta ancora maggiore scalpore nella critica che era stata in un primo tempo ostile al libro: “per un uomo era eccellente, ma per una donna straordinario!”
Ma la Shelley non è l’unica a segnare la storia della letteratura, in questa notte del 16 Giugno 1816.
John W. Polidori riesce, per una volta, a uscire dall’ombra gigantesca di Byron che lo eclissa e umilia costantemente e lo fa sfruttando proprio il suo Lord come ispirazione.
Scrive il racconto “The vampyre” con protagonista il tenebroso, elegante, glaciale Lord Ruthven, essere incapace di sentimenti umani che gode solo nella sofferenza e si nutre di sangue per continuare a vivere.
Per creare il primo vampiro della storia Polidori si ispira proprio a Lord Byron, l’amico sensuale, amorale e spietato che corrompe le donne e succhia pure a John la vita, con il suo magnetismo.
Il vampiro di Polidori non rappresenta solo una minaccia per la vita delle sue prede, ma anche per la loro rettitudine morale e il loro buon nome.
“The vampyre”, è un racconto con qualche momento inquietante, ma che spreca i momenti migliori depotenziandoli e concludendosi con un finale anonimo.
Ma, – a essere geniale – è l’attualizzazione del mito del vampiro, che Polidori incarna in una forma nuova al cui centro si pone l’elemento della seduzione.
Lord Ruthven sarà ispirazione per il “Dracula” di Bram Stoker e per tutta la successiva letteratura horror mondiale.
Ma il destino, per il povero Polidori, è davvero maledetto.
Byron vampirizzerà anche questo suo possibile successo, visto che il racconto “The vampyre” esce su una rivista mensile a nome di Byron e ottiene un inatteso e rapido successo, senza che questo possa dare alcuna gloria al nome di Polidori.Byron commenterà acido: “Dubito proprio che qualcuno che mi conosca possa pensare che la roba in quel giornale sia mia“.
Il medico viene quindi licenziato da Byron e torna in Inghilterra, cercando di studiare legge e poi manifestando la volontà di prendere i voti. Nel frattempo continua a lottare per ribadire la paternità del suo racconto e punta a farne un romanzo che non vedrà mai la luce.
Polidori muore a soli 26 anni, suicidandosi, in seguito ai debiti di gioco.
Anche Byron non ha sorte fortunata, del resto.
Muore per un attacco di febbre tre anni dopo, in Grecia, dove ha sposato la causa della nazione ribelle all’Impero Ottomano.
Al suo funerale l’aristocrazia inglese che lo ha disprezzato per i suoi eccessi invia un corteo di 47 carrozze listate a lutto. Ma, per spregio alla sua memoria, sono tutte vuote, con solo il cocchiere a condurle.
Beffardo destino, quello di Byron. Probabilmente muore per via della malaria, ma anche per i salassi con cui tentano di curarlo e che, invece, finiscono per peggiorarne le condizioni e ucciderlo.
Proprio lui, che aveva vampirizzato con il suo magnetismo il giovane medico Polidori, muore lentamente dissanguato dai salassi dei medici.
Come in un racconto dell’orrore.
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