Capua, Campania, 73 avanti Cristo.
Siamo in una scuola particolare dove non si studia sui libri, ma si formano uomini destinati a combattere e, quasi sempre, a morire.
Si tratta di un ludus, una scuola per gladiatori dentro lo stesso anfiteatro.
La frequentano per lo più giovani, se non giovanissimi, la cui sorte è morire sulla sabbia di un’arena, trafitti da un rivale o addentati da una belva feroce.
I gladiatori vivono sottoposti a rigida disciplina, si allenano a combattere contro un palo di legno con l’arma che ha scelto per loro il lanista, come si chiama il proprietario della scuola.
A guidarli e insegnare l’arte di combattimento sono i pochi ex gladiatori sopravvissuti. I guerrieri seguono una dieta specifica a base di orzo che li mantenga atletici, ma abbastanza grassi da sopportare ferite superficiali, guadagnano pochissimo, vivono dentro cellette senza finestre. Di fatto sono reclusi nella scuola, sia quelli fra loro che hanno stipulato un accordo, votandosi agli dei inferi e promettendo di accettare ogni trattamento, sia quanti sono arrivati come schiavi acquistati dal lanista.
Non sono rari i casi di gladiatori che invece di lottare nell’arena, si tolgono la vita da soli, esasperati dalla stanchezza per un’esistenza infame, fatta di morte e prigione.
Le testimonianze pervenute non ci raccontano quale sia la scintilla che fa iniziare tutto.
Forse è la disciplina troppo rigida, forse il cibo schifoso, forse il lanista Lentulo Batiato che maltratta con brutalità i suoi guerrieri, ma – un giorno – i gladiatori di Capua insorgono guidati da un uomo alto, bello, carismatico e – si racconta – persino intelligente e colto.
Perché Spartaco è stato libero, prima di diventare un gladiatore specializzato nella lotta con la spada, portare uno scudo rettangolare e indossare un elmo integrale a fantasie marine, la divisa con cui sbaraglia gli avversari. È diventato schiavo, sembra insieme alla moglie, come punizione per un atto di insubordinazione o diserzione, dopo aver prestato servizio militare come soldato romano, lui, originario della Tracia, terra che corrisponde al luogo dove oggi è la Bulgaria.
Da questo verrebbe il suo nome Sparadakos, armato di lancia; o forse, più semplicemente, per assonanza con Sparta e la proverbiale durezza dei suoi soldati.
Spartaco, a Capua, diserta dal suo ruolo di guerriero pagato per ammazzare uomini o animali e si mette alla testa di un gruppo di colleghi ribelli.
Per scappare dalla scuola e dall’anfiteatro, non possono usare le loro armi, custodite in una zona vigilata: arraffano coltelli e spiedi e vanghe trafugati nella cucina del ludus e nel cortile, con cui aggrediscono e uccidono le guardie, le spogliano delle armi e, seminando il panico, riescono a fuggire.
I cinquanta energumeni disposti a tutto e armati alla meglio si rifugiano sulle pendici del Vesuvio inseguiti da un piccolo contingente romano.
I Romani li stringono in una zona priva di uscite, chiudendo l’unico sentiero di accesso alla vetta del monte Somma, ma – come in un film – i gladiatori creano delle funi dai tralicci di vite, si calano lungo una pendice rocciosa e nottetempo accerchiano i Romani, assalendoli e sbaragliandoli. Molti muoiono, altri fuggono nei boschi.
A questo punto il drappello di rivoltosi potrebbe disperdersi, ciascuno dei combattenti potrebbe cercare a suo modo la salvezza, ma nessuno lo fa, rimangono con l’uomo della Tracia che ne ha preso il comando insieme al gallo Crissio e al germano Enomao.
Il gruppo di disperati cresce di numero. Si aggregano a loro pastori, poveri, schiavi, ex gladiatori liberati e tutti vengono addestrati militarmente.
Gli uomini di Spartaco fanno razzie, come qualsiasi esercito dell’epoca, ma – questo è insolito – ridistribuiscono all’interno i bottini e non tengono ori e argento, usandoli per acquistare armi. Per costruirle, invece, leggenda vuole che usino pure le catene con cui erano stati imprigionati.
L’accolita di uomini si trasforma in qualcosa di simile a un esercito e affronta più volte i soldati romani. Non si tratta di grandi eserciti, ma di contingenti piccoli e poco motivati, perché la missione contro Spartaco è poco importante e quegli ex gladiatori non possiedono nulla da depredare, nemmeno una città da saccheggiare. Hanno solo la libertà guadagnata da difendere e lo fanno ferocemente, sconfiggendo i romani per nove volte, mettendo in crisi la più grande potenza del mondo conosciuto.
L’esercito ribelle passa da 50 a 120.000 uomini, ma inizia anche ad avere problemi intestini. Enomao è morto, mentre Crissio il gallo si lascia andare coi suoi uomini a violenze gratuite, razzie, uccisioni che Spartaco non tollera. Per questo le forze si dividono e Crissio, sceso in Puglia con 30.000 uomini, cade in combattimento.
Spartaco, intanto, si sposta a nord, inseguito dai Romani, ma riesce a sbaragliarli due volte, a cavallo degli appennini.
La sua vendetta per la morte del vecchio compagno d’armi Crissio è terribile: il generale ribelle fa combattere alla morte 300 soldati romani fatti come gladiatori, in un contrappasso tremendo.
Spartaco va ancora nord e facendo strage di legionari, sconfigge anche il proconsole Longino Caro sceso a Modena per fermarlo.
A questo punto il comandante ribelle potrebbe fuggire definitivamente dall’Italia e spostarsi in terra spopolate, ma non lo fa; forse lo ferma il clima rigido e l’impossibilità di varcare le Alpi, forse spera di arrivare a sud e prendere il mare per la Grecia e poi la patria, la Tracia. Forse lo spinge il sogno di creare qualcosa di ancora più grande, una specie di stato, regno, da opporre a Roma.
Forse è solo un uomo che non ha altra scelta che battersi, perché è la sola cosa che può fare.
Mentre Spartaco ridiscende a Sud, Roma decide di incaricare un uomo più abile e determinato del compito di fermarlo e, nel 72 A.C. il Senato affida al proconsole Marco Licinio Crasso il compito di reprimere la rivolta concedendogli circa 40.000 soldati.
Eppure, al primo scontro, gli uomini di Spartaco hanno ancora ragione dei Romani troppo arrendevoli e preda di errori tattici dei loro comandanti.
La furia di Crasso si scatena sui suoi stessi legionari e il proconsole ordina per le sue truppe una punizione terribile e rara, la decimazione: un soldato su dieci dovrà morire per punire la codardia di tutti. Vengono scelti a sorte 4.000 uomini e uccisi a bastonate o pietrate dai loro commilitoni, per spingere chi sopravvive a battersi all’ultimo sangue, come i ribelli.
Spartaco inizia a muoversi nel sud, prima cercando di arrivare in Sicilia – ma viene tradito dai pirati che gli avevano offerto il loro supporto – poi virando versa la puglia pressato da Crasso. Nonostante riesca ad aumentare ancora una volta le fila del suo esercito con schiavi e fuggiaschi di varia natura, Roma è pronta a rafforzare con altri due proconsoli l’esercito.
E così nel 71 avanti Cristo, probabilmente in Calabria, dove oggi sorge Petilia Policastro, Spartaco fronteggia l’esercito di Crasso superiore nel numero mentre, dalla sua, ha uomini stanchi.
Il comandante ribelle uccide il suo cavallo prima dello scontro, perché “se vincerò ne avrò quanti ne voglio, se perderò non mi servirà più”.
Appiedato Spartaco si lancia ancora una volta nella mischia in testa ai suoi uomini, cercando personalmente lo scontro con Crasso, ma il comandante romano è nelle retrovie. Accerchiato dai nemici, battendosi contro un nugolo di uomini, il gladiatore ribelle infine cade trafitto dai fendenti che arrivano da tutti i lati.
Muore combattendo, però muore uomo libero.
Come ogni storia leggendaria che si rispetti, anche questo finale è avvolto dal mistero.
Il corpo di Spartaco non viene ritrovato, sul campo di battaglia.
Qualcuno dice perché sfigurato dai nemici.
Qualcun altro perché il cadavere viene crocifisso, come monito e punizione, la stessa sorte che tocca a molti dei ribelli.
Ma, qualcun altro ancora, sostiene che Spartaco riesca infine a guadagnarsi la libertà, raggiungendo la costa con un gruppo di combattenti e fuggendo via mare verso la Grecia e raggiungendo la patria, per una vita lontano dalla guerra.