Nel 1991 scoprii davvero il rock e, come molti ragazzi di quel periodo, quella scoperta venne da un motivo tragico: la scomparsa di Freddie Mercury.
Ricordo ancora il pullman su cui andavamo in gita in Belgio e “Greatest Hits II” dei Queen che continuava a uscire dalle casse, riprodotto su quell’oggetto misterioso che oggi sono le musicassette. Grazie ai Queen iniziai a capire cosa mi piaceva e cosa VOLEVO ascoltare: “I want it all and I want it now!”.
Insomma, io debbo a Freddie Mercury e a May, Deacon, Taylor tante cose belle venute nella mia vita.
In quegli anni comprai o ascoltai diversi album dei Queen, eppure non posso definirmi un fan, perché non ho la necessaria conoscenza enciclopedica della band.
Tuttavia ho abbastanza elementi (e credo di aver ascoltato abbastanza musica e visto abbastanza live) per poter giudicare i Queen fra le band più grandi di sempre, non solo per la quantità di pezzi di enorme livello che hanno suonato, ma anche per la varietà di stili che hanno toccato. E credo di non pronunciare eresie identificando in Mercury il più grande cantante rock che abbia mai calcato un palco, se consideriamo insieme doti tecniche, carisma, qualità delle performance dal vivo.
Insomma, non potevo perdermi Bohemian Rhapsody, tanto da andare a vedermelo da solo in un gelido lunedì pomeriggio.

Non sono un critico cinematografico, non ne ho gli strumenti. Sono solo uno spettatore tra tanti che, di fronte al film di cui tutti parlano, ha avuto l’impressione di un risultato spaccato in due.
Da una parte una prova di attore colossale e un inserimento perfetto dell’elemento musicale, dall’altra una storia che mi viene da definire edulcorata, priva di coraggio.
Rami Malek che interpreta Freddy Mercury è strepitoso e regge quasi da solo un film spesso tagliato con l’accetta, che semplifica la vicenda umana di Mercury nel canone da musical di ascesa, caduta, risalita tra una canzone e l’altra.
Qualcuno mi ha detto di aver apprezzato la leggerezza con cui la pellicola sfiora gli aspetti intimi di Mercury, ma il dubbio che mi viene è se sia leggerezza o paraculaggine, se sia uno strizzare l’occhio ai fan e cercare di vincere facile con un attore in questa grazia e con quella musica, piuttosto che tentare di raccontare un uomo complesso che condusse (e scelse) una vita di eccessi, un perfezionista maniacale, un performer consapevole della sua forza e del suo fascino, un artista che volle essere trasgressivo e la cui carica sensuale qui viene intrappolata in un personaggio che sembra troppo dolce e fragile e traviato da fattori esterni per essere vero.
Ecco, è come se questo film rifuggesse volutamente la complessità.
Vediamo Freddie Mercury innamorato di Mary e poi, tac, l’ammiccare di un camionista ci lascia intuire che sia altrove, il suo interesse. Ma del conflitto interiore di un uomo cresciuto in un famiglia tradizionalista, che propone a una donna di sposarlo e poi ama gli uomini, ben poca traccia.
Gli eccessi leggendari da rockstar degli anni Settanta e Ottanta, quelli per cui lo stesso Mercury diceva di aver speso follie, quelli che mettevano anche in crisi la band, si limitano a una festa eccentrica, qualche bottiglia in giro, i ritardi alle prove, una pista di cocaina (che appena si intravede), una battuta degli altri sull’essere “fatto” (ma senza mai mostrarlo, che potrebbe risultare scomodo). Gli appetiti sessuali leggendari, le dipendenze, la facilità ad annoiarsi di tutto, l’arrivo della malattia e la gestione di un destino inevitabile, tutto è sfiorato in superficie.
Le liti e le discussioni e i conflitti sembrano compassati come se nessun personaggio, a fine del film, dovesse uscirne intaccato.
Gli altri Queen rimangono (molto) sullo sfondo, disegnati in modo monocolore (May intelligente e paterno, Deacon anonimo, Taylor appena bizzoso) e con un comportamento un po’ comico da educande. Tutti i personaggi secondari sono manicheisticamente divisi in buoni (la maggioranza) e cattivi (un paio), i quali traviano il protagonista altrimenti puro.
La mia impressione è che la collaborazione con gli altri membri della band abbia trattenuto la scrittura del film, patinandola dove avrebbe potuto essere più rude. Anche la non eccessiva lunghezza e, per contro, l’ampiezza delle parti musicali del film sottrae possibilità di approfondimento.
Ne esce una favola ottima per commuovere (e ci riesce!) e disegnare un ben confezionata agiografia di Mercury e raccontare la musica della band, ma non la narrazione complessa (forse troppo difficile) di una rockstar discussa e discutibile e fondamentale. Intendo dire che sono la prova di Malek e la musica dei Queen a rendere memorabile “Bohemian Rhapsody”, ma non il film in sé stesso.
Poi, certo, le sequenze musicali sono davvero eccellenti e i quindici minuti finali del Live Aid valgono da soli il prezzo del biglietto, un grande cinema che ti porta lì dove non hai potuto essere e, per goderne, rivedresti il film dieci volte.
Di Malek ho detto già, l’uso del corpo per disegnare Mercury nelle sue mosse, i suoi tic, le sue fragilità, è fantastico e supplisce da solo alle carenze di cui ho detto, in certi casi nascondendole.
Eppure, alla fine, resta l’impressione di un’occasione persa per raccontare un personaggio leggendario e iconico in modo più completo e sfaccettato.
Brian May sicuramente ha tutti i titoli per dire che questo Mercury sarebbe piaciuto all’originale, del resto è un ritratto che non può non piacere, quello di un artista grande e dolce, sofferente e fragile, dibattuto e infine risolto.
Eppure, questa rappresentazione perfezionata come una rosa senza spine, a mio avviso separa un buon film da un capolavoro.
E, raccontando il più grande frontman rock di sempre, era al capolavoro che si poteva e forse doveva arrivare.

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