La notte tra il 3 e il 4 Giugno 1989 finisce nel sangue il sogno di una Cina diversa.
Le proteste che hanno portato migliaia di ragazzi in piazza Tienanmen, a Pechino, sono iniziate da settimane, sulla scia di quelle dei paesi del blocco comunista europeo e il vento di cambiamento che soffia nell’Unione Sovietica del leader Michail Gorbačëv.
Le manifestazioni crescono di settimana in settimana: se in aprile ci sono 50.000 studenti nelle strade, in maggio diventano 100.000 a chiedere più diritti civili, come quello di cronaca nei media, di associazione e riunione; chiedono la liberalizzazione sociale, politica, economica; chiedono una lotta alla corruzione dello Stato e alla soffocante burocrazia.
Con loro manifestano gli operai che invocano salari più giusti e minori divergenze di stipendio tra loro e la classe dirigente.
In piazza Tienanmen, cuore di Pechino, i manifestanti si accampano, dibattono, festeggiano anche a lungo e allestiscono un palco di fortuna sul quale parlare e fare musica.
Su quel palco sale imbracciando la sua chitarra un giovane ma famosissimo musicista, ex suonatore di tromba e membro della filarmonica di Pechino che si è convertito a un sound a metà tra folk e tradizione, pop e rock.
Nel 1986 Cui Jian si è guadagnato il titolo di “bomba atomica del rock and roll cinese” incidendo il successo Nothing to My Name, cioè “Non ho nulla di mio”, suonata anche ai Giochi Olimpici di Seul del 1988 e amatissima dai ragazzi.
La scelta di salire sul palco di Tienanmen di fronte a migliaia di giovani che intonano insieme le sue canzoni rappresenta un enorme sostegno alla protesta.
«Te l’ho chiesto all’infinito, quando verrai via con me» canta Cui Jian rivolgendosi a uan ragazza immaginaria che rappresenta una Cina diversa, evocata anche in un’altra grande hit, A Piece of Red Cloth, “Un pezzo di stoffa rossa”.
“Quel giorno tu hai usato un pezzo di stoffa rossa
Hai reso ciechi i miei occhi e
Mi hai chiesto che cosa vedessi
Ti ho detto che vedevo la felicità”
Cantandola a Tienanmen, Cui Jian si lega una benda rossa sugli occhi, suonando senza vedere il suo pubblico, a simboleggiare la cecità che il regime comunista vorrebbe imporre a lui e a quegli stessi ragazzi che lo ascoltano.
I manifestanti hanno l’attenzione dei giornali di tutto il mondo specie quando in Cina, a metà maggio, arriva per una visita diplomatica Michail Gorbačëv e gli studenti, da piazza Tienanmen, si rivolgono al mondo.
“È un momento di vita o di morte per la nazione.
Tutti voi compatrioti, tutti voi che avete una coscienza, ascoltate le nostre grida.
Questo paese è il nostro paese.
Questa gente è la nostra gente.
Questo governo è il nostro governo.
Se non facciamo qualcosa, chi lo farà per noi?”
La mobilitazione continua, portando in piazza centinaia di migliaia di cinesi e, mentre la protesta si diffonde in altre trecento città, il Partito comunista cinese è diviso sul modo in cui gestirla.
Il segretario del partito, Zhao Ziyang, è favorevole al dialogo e a una soluzione pacifica; con una scelta coraggiosa e drammatica, all’alba del 20 maggio 1989 scende a Tienanmen per indurre i ragazzi a cessare lo sciopero della fame e liberare la piazza, prima che arrivi una soluzione di forza.
Ma Zhao Ziyang fallisce, e prevale l’ala conservatrice del partito, ispirata dal leader militare Deng Xiaoping, che mira a cancellare la protesta sgomberando la piazza.
L’esercito occupa Pechino senza scontri con la popolazione, ma i manifestanti erigono barricate e bloccano le strade, impedendo ai militari di arrivare alla piazza Tienanmen.
Dopo dodici giorni di stallo, Deng Xiaoping fa approvare la legge marziale, per la seconda volta nella storia della Cina dopo la rivolta del Tibet del 1959.
La notte del 3 giugno 1989 l’Esercito Popolare di Liberazione si muove dalla periferia di Pechino verso piazza Tienanmen mentre in TV e attraverso i megafoni viene ordinato ai cittadini il coprifuoco.
«Chiunque uscirà in strada sarà il solo responsabile di ciò che gli accadrà.»
Ma le persone non obbediscono e cercano di bloccare i carri armati creando barricate e ostacoli; l’esercito non riesce ad avanzare e, alle dieci e mezza, la situazione precipita.
I soldati mandati dal Partito comunista cinese sparano sulla gente, non è chiaro se come reazione alla morte di alcuni militari o per ordine diretto del governo.
Certo è che l’intervento militare è di terribile brutalità: carri armati e fucili contro la popolazione civile fanno sì che nel centro di Pechino, in poche ore, si scateni una mattanza.
In molti casi sono i guidatori di risciò ad avventurarsi nella piazza, tra i militari, la folla, le pallottole, per trasportare i feriti in ospedale.
Alcune persone riescono a fuggire e scampare alla strage: tra loro c’è anche Cui Jian, che si rifugia lontano dalla capitale per evitare l’arresto.
I soldati, seminando morti sulle strade, circondano piazza Tienanmen.
I manifestanti votano la resa, eppure vengono ancora bersagliati dai colpi delle armi d’assalto.
I giornalisti racconteranno di «fuoco indiscriminato» contro la popolazione, di enormi numeri di morti e feriti, di persone in fuga schiacciate dai carri armati o colpite alle spalle.
Il 5 giugno i manifestanti, in particolare i parenti delle vittime, cercano di riprendere la piazza, ma di nuovo vengono trucidati in una sorta di barbara esecuzione.
È in questa mattina, che diversi fotoreporter americani e la CNN immortalano un ragazzo con una busta in mano e la sua giacca nell’altra che si oppone da solo, con il suo corpo esile, al passaggio dei carri armati in un’immagina che rimarrà per sempre nella storia.
Il 9 giugno Deng Xiaoping riappare in pubblico per la prima volta dal giorno del massacro e piange i militari caduti, uccisi dagli studenti il cui obiettivo sarebbe stato «instaurare una repubblica borghese dipendente dall’Occidente».
Il regime arresta Zhao Ziyang, che aveva tentato un disperato dialogo con i manifestanti, confinandolo ai domiciliari, dove resterà fino alla morte, nel 2005.
Il numero di morti di piazza Tienanmen non sarà mai reso noto.
Il governo parlerà di duecento vittime fra civili e soldati, la CIA ne conterà tra le quattrocento e le ottocento. La croce rossa abbozzerà la tragica stima di duemilaseicento morti e trentamila feriti, senza contare le esecuzioni sommarie avvenute nelle settimane successive nelle località più remote del paese.
Altre stime calcoleranno il totale dei morti sopra i diecimila, ma questo numero, ancora oggi, a trent’anni di distanza, è avvolto dal mistero quanto la verità sui fatti di piazza Tienanmen, argomento tabù per la Cina.
Il governo non impedisce manifestazioni per ricordare il 4 giugno 1989, ma ancora oggi limita il più possibile le attività dei partecipanti ed esercita la censura sui mezzi di comunicazione, tanto che in Cina è impossibile cercare sul web contenuti a proposito Tienanmen o del Tibet: tutti gli articoli che facciano riferimento a manifestazioni contro il governo o che contengano immagini delle proteste sono bloccati da efficientissimi filtri automatici.
La Cina traccia ogni utente di internet anche tramite i documenti di identità, per poter individuare più agevolmente chi cerca contenuti “proibiti”.
Non essere allineati in Cina è difficile e pericoloso, perché tanto è complicato formarsi un’opinione che non sia condizionata dal governo quanto è noto che chi dissente può pagare le proprie idee con il carcere o il confino.
In tutto Cui Jian, rocker che nel 1989 canta in piazza Tienanmen e deve fuggire da Pechino per scampare alle rappresaglie, nel 1990 torna a esibirsi in pubblico.
Jian inizia un tour per raccogliere fondi per l’organizzazione dei Giochi asiatici: anche lui sembra ormai piegato a servire lo stesso apparato non democratico dello Stato cinese che aveva combattuto solo un anno prima.
Ma un giorno, a metà del tour, Jian sale sul palco per cantare Un pezzo di stoffa rossa e di nuovo si mette una benda rossa sugli occhi, un gesto potentissimo di opposizione in quel paese illiberale, dove può lottare solo attraverso la sua arte. Perché se in Cina è necessario soppesare ogni dichiarazione pubblica, la musica sa trovare altri modi per parlare di libertà.
«Qualcuno dice che ci siano significati nascosti, nelle mie canzoni, significati politici. Io non lo voglio dire chiaramente, perché non devo. Ma politica e amore, in qualche modo, sono una cosa sola. Odio e amore. Non puoi vivere senza.»
Le autorità si infuriano e bloccano il tour, cancellando tutte le altre date.
Il regime lo costringe a esibirsi per dieci anni lontano da Pechino, in piccoli club. Tutte le volte che Cui Jian chiede l’autorizzazione a suonare nella capitale sembra che sia possibile, che si possa fare, nessuna regola glielo vieta. Poi, però, manca sempre qualcosa: un foglio, un permesso, un visto.
«Ogni anno abbiamo fatto domanda, ogni anno qualcosa è andato storto. Forse non siamo stati banditi, forse è solo che non abbiamo lavorato con la persona o la compagnia giusta» ha spiegato ironico Cui Jian, misurando le parole.
«Ho imparato a giocare il gioco. Non voglio dire bugie. Devo essere attento alle parole che scelgo. La paura è stata una parte della cultura di questo paese negli ultimi cinquant’anni, forse negli ultimi duemila. Quando parlano di libertà, quando parlano di politica, le persone hanno paura.»
Nonostante le difficoltà, il suo seguito è diventato enorme e ha abbracciato diverse generazioni. Cui Jian è diventato il musicista rock più celebre della Cina, con una stima di dieci milioni di dischi venduti, una lunga serie di pezzi famosissimi ed esibizioni anche all’estero. Dopo il lunghissimo bando da Pechino, inoltre, nel 2000 ha finalmente ottenuto la possibilità di tornare a esibirsi nella capitale del suo paese, dove aveva suonato l’ultima volta nel 1989.
Ma le sue idee non sono cambiate.
Nel 2014, quando lo hanno invitato a suonare per Capodanno, le autorità cinesi hanno chiesto Cui Jian di cambiare le parole di Nothing to My Name. E allora lui ha scelto di non suonare, dicendo semplicemente: «La potenziale collaborazione non ha funzionato».
Un musicista cinese che rifiuta di esibirsi per la Cina: ditemi voi se vi sembra poco.
Ancora oggi, in ogni concerto di Cui Jian, il pubblico sventola al cielo bende rosse, in ricordo di piazza Tienanmen e dei ragazzi che videro il sogno di una Cina diversa finire schiacciato sotto i cingoli dei carri armati. E lui si esibisce bendandosi.
Perché si possono controllare le manifestazioni in memoria del 1989, tracciare gli utenti web e inserire tutti i filtri di ricerca possibili, ma la musica di Cui Jian non ha smesso di celebrare la libertà, anno dopo anno, generazione dopo generazione, senza invecchiare mai.
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Questa storia, qui ridotta per ragioni di spazio, è inclusa nel mio ultimo libro “Come fiori che rompono l’asfalto – Venti storie di coraggio” edito da Rizzoli.