“SanPa” è una docu-serie italiana che mi sento proprio di consigliarvi.
Racconta l’ascesa incredibile di un uomo – Vincenzo Muccioli – e del suo sogno: un luogo dove salvare i ragazzi dalla tossicodipendenza e da morte quasi certa, senza chiedere loro un soldo.
Anche se il prezzo da pagare, per tutti, non riguarda solo il denaro.
La serie ci riporta al tema della tossicodipendenza da eroina e la devastazione che ne è seguita, inclusa la diffusione dell’Aids , che per chi è nato nei 60 – ma anche nei 70, come me – ha rappresentato parte concreta e costante delle nostre vite, dei nostri dolori, delle nostre paure.
Racconta anche la caduta – dell’uomo, non della comunità che ancora esiste – e le ombre, anzi le tenebre dietro la luce, come da sottotitolo.
In particolare affronta il tema dell’esercizio arbitrario del controllo, la privazione di libertà, l’uso della forza e persino della violenza che sconfina nella tortura nel nome di un bene superiore ovvero la salvezza degli ospiti. Se il tuo destino è morire, se stai scivolando lungo un piano inclinato e non riesci a fermarti e chiedi aiuto, allora io posso, anzi devo fare qualsiasi cosa per cercare di salvarti.
Ma fino a che punto?
La serie SanPa racconta le morti sospette all’interno della comunità, i processi, le accuse, il sostegno popolare e politico enorme, la posizione delle famiglie degli ospiti, la sofferenza di chi è dipendente, attraverso le voci di alcuni ex ospiti e collaboratori di Muccioli. La sua figura giganteggia per tutta la serie nella sua complessità e ambiguità, bucando lo schermo ancora come fece già all’epoca.
La serie merita molto, a mio avviso, perché riesce a raccontare lasciando sospeso il giudizio e mette lo spettatore nella posizione scomodissima di chiedersi continuamente dove stia la verità, la giustizia, chi sia davvero Muccioli, benefattore o narciso, filantropo o egocentrico prevaricatore, padre o padrone o tutte queste cose insieme. A domandarci fino a che punto la nobiltà di un obiettivo legittimi i mezzi più brutali per arrivarci. E mostra la lunghissima assenza e ambiguità dello Stato stesso sul problema dell’eroina e la gestione delle sue vittime.
Quando passi tutte le puntate di una serie a cambiare idea continuamente, a pensare “eh, sì, certo, però..” sia di una posizione che del suo opposto, significa che gli autori hanno lavorato benissimo creando un prodotto narrativo che va in profondità e porta il pubblico in quella disconfort zone che non semplifica, evita facili soluzioni e univoche verità, pone domande lasciando aperto il ventaglio delle risposte.
Per questo il protagonista che mi è risultato più sgradevole è stato Red Ronnie, amico di Muccioli, con le sue granitiche certezze e l’incapacità arrogante di mettere la sua verità (e dunque sé stesso) in discussione.
Tutti gli altri personaggi/protagonisti escono invece nella loro complessità, nella sofferenza dei loro percorsi chiaramente segnata anche sui loro visi e corpi, nell’incapacità molto umana di stare da una parte sola.
(Se vi è piaciuta SanPa, sullo stesso stile, mi sento di consigliarvi anche “Wild wild country”, americana, che racconta ugualmente la vicenda incredibile di una comunità: quella fondata dal mistico indiano Osho, negli anni 80, negli Stati Uniti).
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