Per tutte le persone che non lo hanno potuto leggere, pubblico l’articolo che ho firmato per “La Stampa”  del 9 Maggio 2013 sulla sciagura capitata al porto di Genova.

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Ieri mattina il mio telefono è squillato alle sette, che ancora dormivo.

Ho imprecato per averlo lasciato acceso, visto che ero di turno alla sera, per la partita della Sampdoria. Ma insieme è arrivato quel brutto presentimento che mi danno sempre le telefonate fuori orario. Sono andato a rispondere.

“Ce la fai a venire subito in caserma? Per la tragedia che è successa in porto, mi serve gente che esca subito”.

“Sì, ok, va bene, ma…”.

“Ci sentiamo appena sei dentro” mi ha detto il collega e poi ha riagganciato.

Mi sono cambiato più veloce che potevo e intanto pensavo.

Tragedia.

Porto.

Qui a Genova siamo abituati ai morti in porto. È triste e brutale dirlo, ma è così. I morti in porto sono un cupo refrain che ascoltiamo sin da bambini. Impossibile avere un conto dei lavoratori caduti, schiacciati, travolti, stritolati in questi anni dai container, nelle stive, sulle banchine, sotto le gru. E ogni volta le manifestazioni, la solidarietà e la rabbia di chi con loro lavorava, richieste di più garanzie, più sicurezza, meno forzature e ritmi frenetici.

Ho ripensato a tutte le occasioni in cui il porto era stato chiuso e occupato dai suoi uomini. A quella sera in cui i camalli avevano bloccato i traghetti perché uno di loro era rimasto schiacciato in una stiva e allora tutte le navi dovevano fermarsi. Nessuno si era sognato di protestare per il ritardo, perché era chiaro che quelle persone avevano ragione: qualcosa dovevano farlo, un segnale dovevano darlo.

Ma il collega che mi aveva chiamato al telefono aveva parlato di “tragedia”. Cosa poteva essere capitato di ancora più terribile?

Ho svegliato la mia fidanzata e lei sapeva qualcosa in più da Twitter: l’aveva aperto mentre faticava a prendere sonno.

“Una nave ha buttato giù la torre di controllo, non si sa quanti morti ci sono”.

Cazzo. Sono sceso veloce e mentre acceleravo sullo scooter, ho iniziato a capire l’entità dell’incidente, ricordando tutte le volte che dal traghetto avevo visto i cinquanta metri di torre di controllo. Mentre la nave entrava in porto eseguendo manovre che sembravano difficilissime. Perché in questa città tutto è manovra, ogni spazio è rubato a qualcos’altro, ogni metro è una trincea per cui battersi. Manovre per camminare, manovre per posteggiare, manovre per entrare dentro il porto, manovre per vivere.

Ho sperato che mi mandassero proprio lì, al porto. Perché quando succedono queste cose – le tragedie, le emergenze – è lì che vuoi stare. A cercare di aiutare, a offrire il poco che puoi per renderti utile.

Invece siamo finiti altrove. C’era da coprire una manifestazione rimasta senza personale per l’emergenza. Addetti alle pulizie cui è stato tagliato lo stipendio, a rischio di perdere l’appalto e l’impiego, costretti a sperare che l’IMU non sia cancellata perché così arrivano soldi al Comune. Solo di lavoro si parla a Genova. Lavoro che manca, che non è pagato, che rischia di finire.

Quando la radio ha comunicato che la Compagnia Unica dei portuali era in sciopero e i suoi uomini si muovevano in corteo verso il centro, ho pensato che era inevitabile e giusto. Non si poteva permettere a una giornata così terribile per Genova di scorrere via a uguale alle altre. Bisognava ricordare che in questa città che muore ogni giorno per mancanza di lavoro, le persone continuano a morire di lavoro.

Si scopriranno cause e colpe dell’incidente, arriveranno accuse e le polemiche sulle responsabilità. Ma per adesso ci sono soltanto queste vittime. Uomini del porto e dello Stato, caduti sul loro posto di lavoro, sul loro luogo di servizio. Uomini che a Genova nessuno vede, perché stanno nascosti dietro muri, gru, e container insieme a quel mare che non scorgiamo più, divorato da moli e banchine.

Penso a quei ragazzi della Capitaneria e a tutti i servitori dello Stato che vengono ricordati solo quando pagano il prezzo della vita. Pompieri, finanzieri, carabinieri, poliziotti.

Non c’è nulla di buono o giusto nelle tragedie. Ma drammi come quello che si è consumato stanotte dovrebbero farci ricordare quanto il lavoro abbia bisogno di attenzione e tutela, lotte sindacali e investimenti, sicurezza e dignità.

Quella stessa dignità che viene volgarmente offesa dalla Lega Calcio, quando decide che a Genova, la sera dopo la tragedia, si giochi Sampdoria – Catania nonostante la richiesta di rinvio avanzata da squadra e tifosi blucerchiati.

E così, in questi minuti, altri uomini dello Stato devono andare in servizio per una partita di calcio mentre al porto ancora si scava e si cercano i dispersi. Impiegando risorse preziose, complicando il lavoro di chi deve già coordinare e gestire l’emergenza.

Apro Internet, per capire se solo io mi sono accorto di questo schiaffo. Ma poi leggo messaggi di amici, colleghi, lavoratori, tifosi, politici locali. Tutti uniti nel criticare con durezza questa scelta.

Almeno la dignità, a Genova, è rimasta.

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