Quando si parla di Resistenza si parla, per la stragrande maggioranza, di quegli uomini e donne, ragazzi e ragazze, che si batterono contro il fascismo aderendo ai movimenti di liberazione, entrando in clandestinità e prendendo le armi per combattere contro il regime.
Questo accadde, in particolare, dopo l’armistizio del 1943, quando l’Italia si arrese agli Alleati angloamericani che stavano risalendo la penisola dopo essere sbarcati a Sud e il nostro paese rimase fisicamente diviso in due parti, visto che il Nord e parte del centro furono occupati militarmente dai nazisti e sottoposti a un nuovo governo fascista, la Repubblica di Salò.
Oltre agli uomini che si unirono alla guerra partigiana, però, ce ne furono anche altri, spesso molto giovani, che combatterono ugualmente. E lo fecero senz’armi, nonostante fossero soldati.
Si tratta degli IMI, una sigla spesso sconosciuta, un capitolo tante volte ignorato della nostra storia, una parola che identifica gli Internati militari italiani.
Ma chi sono, gli IMI?
Nelle ore immediatamente successive all’entrata in vigore dell’armistizio firmato dai generali Castellano e l’americano Bedell Smith, l’Italia entra in uno stato di confusione, in particolare nelle zone dove i militari tedeschi sono presenti in forze.
Da un momento all’altro i soldati italiani da alleati diventano nemici.
I tedeschi raggiungono velocemente le caserme del Nord per prenderne il controllo immediato e farsi consegnare le armi.
Vi sono, in quei momenti concitati e confusi, episodi eroici di spontanea opposizione ai tedeschi. Nella caserma di Cremeno, a Genova, quando trovano i tedeschi all’ingresso che chiedono di entrare per la consegna delle armi, i soldati si rifiutano di obbedire e – con l’aiuto della popolazione – iniziano uno scontro a fuoco che costerà undici vittime.
La caserma si deve arrendere quando i tedeschi minacciano di raderla al suolo con l’artiglieria pesante e questo gesto viene considerato uno dei primissimi, se non il primo, atto puro di Resistenza della storia italiana, seppure messo in atto da militari dell’esercito regolare.
In altre caserme, però, i soldati sono pochi, non vengono informati di nulla o non hanno il tempo di capire cosa sia successo. I tedeschi arrivano e, nel giro di pochissimo, i militari italiani devono scegliere cosa fare della propria vita. Le opzioni sono soltanto due: aderire alla Repubblica di Salò e combattere ancora per il fascismo o rifiutarsi e diventare prigionieri di guerra, con il rischio, quasi la certezza, di essere spediti in prigione in Germania.
È il caso di un giovane soldato di ventidue anni, nato a Ventimiglia, che è stato a lungo di stanza in Puglia come carrista ed è finito poi a Vercelli.
Si chiama Aldo Vivaldi e non è mai stato un fascista. Prima della guerra, era un ottimo corridore, una speranza dell’atletica nei cinquemila e diecimila metri, poi – a diciannove anni – si è dovuto arruolare. Non ha mai combattuto, non ha mai ucciso, il suo reparto lo ha impiegato per lo più come supporto nei campi del Meridione per i raccolti.
Ora però la guerra è arrivata da lui.
«Aderisci a Salò?» chiedono ad Aldo e agli altri soldati con lui a Vercelli.
Un suo commilitone, che è originario di quelle zone del Piemonte e ha una moglie e una figlia, gli confessa che non se la sente di rischiare di finire in Germania e passa all’esercito fascista chiamato “repubblichino”. Combatterà per Salò, a fianco dei nazisti, principalmente contro i partigiani. Italiani che devono uccidere altri italiani.
Aldo non ha famiglia, ma ha i suoi genitori, non più giovanissimi, che lo aspettano a casa. Aderire a Salò gli garantirebbe la possibilità di continuare a vederli e non finire prigioniero, ma al prezzo di combattere per i nazisti. A lui nazisti e fascisti non sono mai piaciuti e non vuole ammazzare partigiani. Messo di fronte alla domanda «Vivaldi, aderisci a Salò?», Aldo decide.
«No.»
Lo mettono su un treno, insieme a tanti altri soldati che hanno servito il paese, ma ora sono diventati “traditori” perché non vogliono schierarsi al fianco di Hitler: pensano che la guerra debba finire e l’Italia arrendersi.
Sono gli IMI: seicentomila giovani italiani che finiscono in prigione in Germania.
Non vengono rinchiusi nei campi di concentramento destinati allo sterminio sistematico, ma internati, cioè incarcerati nei campi di prigionia militare.
Questo non significa che non muoiano lo stesso.
In quanto traditori, subiscono il peggiore dei trattamenti possibili, anche rispetto ai militari di altri paesi, come l’Inghilterra, che sono nemici di guerra, ma non hanno tradito.
Gli italiani prigionieri in Germania soffrono la fame, il freddo, le malattie, vengono utilizzati per i lavori più duri. Se sgarrano possono essere giustiziati per decisione di un qualsiasi piccolo ufficiale nazista.
Aldo finisce a Lipsia e lì combatte la sua personale e quotidiana guerra di resistenza per sopravvivere e non arrendersi.
Degli IMI partiti per la Germania, il dieci per cento, ovvero sessantamila uomini, quasi tutti giovani, non torneranno mai, perché moriranno. Alcuni, invece, piegati dalla prigionia cambieranno idea e combatteranno per Salò e i nazisti.
Nel campo di prigionia di Lipsia Aldo sta male, ha poco cibo, perde tanto peso e da sessantadue chili arriva a pesarne quarantacinque.
Ma non cambia idea e non chiede di rientrare a combattere per Salò.
Ai genitori scrive qualche lettera per comunicare che è vivo e accertarsi che lo siano anche loro, visto che Genova è sotto i bombardamenti.
Per fortuna il suo compagno di cella, un ragazzo veneto che si chiama Raimondo, riceve pacchi di cibo dall’Italia, e li condivide con lui.
«Se usciamo vivi di qui ci dobbiamo fare da testimoni di matrimonio.»
Poi, però, man mano che la guerra si avvicina alla Germania, i tedeschi decidono di impiegare i soldati italiani al fronte, per scavare trincee, costruire barricate, spalare neve, il tutto sotto le bombe sganciate dagli aerei alleati.
Le possibilità di salvarsi diminuiscono, il sogno di Aldo e Raimondo di farsi da testimoni di nozze svanisce.
Alla fine del 1944 di Aldo si perdono le notizie, in Italia si inizia a ipotizzare che sia morto.
Fino al 3 maggio 1945.
Genitori carissimi,
certamente sarete stati in apprensione per questo mio lungo silenzio e voi non potete immaginare quanto siano stati lunghi questi mesi in cui non potevo scrivere, infatti i tedeschi non ci permettevano di scrivere in Italia per tutto il periodo in cui si doveva stare al fronte, periodo che secondo loro dicevano non doveva essere superiore alle 4 settimane, però malgrado queste assicurazioni il tempo passava e il ritorno a Lipsia non avveniva, finalmente il 7 mattino grazie alla rapida avanzata delle truppe americane sono stato assieme a moltissimi altri liberato ed ora mi trovo sempre assieme agli americani in territorio francese, però mi trovavo sempre nell’impossibilità di scrivervi perché a Genova vi erano ancora i tedeschi.
Finalmente qualche giorno fa anche Genova è stata liberata ed allora mi sono affrettato a scrivervi, sperando che questa vi possa giungere ed avere così anche io vostre notizie, ché sono molto in apprensione per voi, anche in seguito agli ultimi avvenimenti svoltisi in Italia.
Come già vi ho detto più sopra mi trovo ora assieme agli americani, sono vestito come loro e sono addetto a fare la guardia ai prigionieri tedeschi, anche per il vitto abbiamo quasi lo stesso trattamento degli americani, in poche parole vi posso dire che non mi manca niente, persino di sigarette ne abbiamo in abbondanza però non potrò mai dimenticare quei pochi e tristi mesi passati al fronte nelle immediate vicinanze delle prime linee, continuamente sotto il tiro delle artiglierie, dei bombardamenti e dei mitragliamenti, con scarso mangiare, a dormire nelle stalle, sporchi, pieni di pidocchi, a lavorare con un freddo intensissimo, a fare fortificazioni o a togliere la neve dalle strade. Moltissimi di noi sono rimasti uccisi o feriti sotto i colpi delle granate, fortunatamente io malgrado mi sia trovato quasi sempre in mezzo alle granate sono rimasto illeso, finché è arrivato il tanto atteso giorno della liberazione e allora tutto è cambiato, quindi state tranquilli che io ora sto benissimo e non aspetto altro che un vostro scritto che mi permetta di attendere con tranquillità il non più lontano giorno del ritorno.
Nella speranza di poter ricevere vostre notizie ricevete i miei cari ed affettuosi saluti e baci,
Aldo
La liberazione dai campi di prigionia, però, non è una festa. I soldati si ritrovano soli e smarriti per giorni.
Al ritorno in patria, Aldo racconterà di essersi salvato vagando senza meta e finendo in un fienile, sfinito e malato di tifo. Un fienile dove una famiglia di contadini tedeschi gli portava patate e latte, senza dirgli nulla, ma nutrendolo. Di Raimondo, invece, ha perso le tracce.
Aldo rimane altri mesi in Germania, a vigilare sui tedeschi.
Quando infine torna in Italia a riabbracciare i genitori, riprende la sua vita. Non corre più – la guerra lo ha provato troppo –, però trova lavoro come ferroviere.La sua non è la vicenda incredibile degli eroi di questo libro. È, invece, una storia semplice e unica, come semplici e uniche sono state le vicende di tantissimi ragazzi italiani che scelsero, con coraggio, di non aderire al fascismo di Salò e preferirono la prigione in Germania, con il rischio di morire lassù, anonimi, attesi invano dalle proprie famiglie. Bollati come traditori e spesso dimenticati dall’Italia anche dopo la guerra.
Molti di loro, come Aldo, non prenderanno mai la pensione di guerra destinata ai combattenti e ai partigiani, perché non sono mai stati ufficialmente in una zona di guerra, pur avendo rischiato per mesi la vita sotto le bombe.
Ma c’è ancora un piccolo pezzo di questa storia.
Un giorno del 1948, Aldo riceve un invito dal Veneto. È del suo compagno di cella in Germania, Raimondo, che lo ha ritrovato e tiene fede alla promessa fatta di invitarlo al suo matrimonio.
Aldo parte per un piccolo paese chiamato Lamon, nel cuore della provincia di Belluno, e lo raggiunge dopo un viaggio lungo quasi due giorni in treno, in bus e infine a piedi.
Al matrimonio di Raimondo, Aldo conosce una ragazza del paese, un’amica della sposa.
Si chiama Anna e diventerà sua moglie.
Aldo e Anna sono stati i miei nonni.
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Il mio ultimo libro “Come fiori che rompono l’asfalto – Venti storie di coraggio” edito da Rizzoli e uscito nel Settembre 2020.
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