Mia nonna si chiamava Anna Pante.

A Lamon, dov’era nata, è un nome comune. Così comune che al cimitero l’hanno sepolta vicino a un’altra Anna Pante. Solo il secondo nome le distingue, ma nessuna persona è uguale all’altra, nessuna vita è comune, nessuna storia è già scritta. Nemmeno quella della primogenita di una famiglia numerosa del profondo Nord.

Mia nonna Anna avrebbe voluto studiare e diplomarsi per diventare maestra. Ma c’erano i fratelli e le sorelle più piccoli, il papà emigrato in Svizzera, la madre da aiutare in casa. Anna faceva tutto e detestava una cosa soltanto: lavare le lenzuola nel torrente che, prima di essere deviato, attraversava la piazza di Lamon.

Era freddissimo, quel torrente. Mi ricordo ancora quell’acqua gelata sulle mani” mi raccontava.

Anna era intelligente e le piaceva studiare, ma lasciò le magistrali dopo soli due anni perché perfino a Lamon era arrivata la guerra. Prima in paese stazionarono i soldati austriaci, militari tranquilli, quasi inoffensivi. Un giorno, però, uno di loro fu ucciso e allora dalla Germania vennero inviate le SS che, per ritorsione, bruciarono la casa di uno dei presunti omicidi. Dentro quella casa morì una donna e Anna andò lì, con sua zia, a recuperare le ossa della vittima con una scatola da scarpe. Ricordava ancora la puzza di bruciato che faceva spavento e la paura di essere scoperte.

“Ma qualcuno doveva farlo, povera donna”.

Dopo la rappresaglia i tedeschi restarono in paese e una domenica, davanti alla chiesa, videro un bambino che correva. Era il fratello più piccolo di Anna, Toni. I soldati gli ordinarono di fermarsi, ma lui non capì bene cosa volessero, si agitò e allora i tedeschi imbracciarono i mitra.

Anna, con il poco di tedesco imparato a scuola, iniziò a spiegare loro che era solo un “kinder”, un bambino. Toni sembrava più grande, con il vestito per andare a Messa, ma aveva soltanto 12 anni. Lei ripeté “kinder” così tante volte ai soldati da convincerli a lasciar stare, e Antonio si salvò.

La guerra incasinò, mescolò, ribaltò l’esistenza di Anna e tante altre vite. Come quella di Raimondo, soldato lamonese internato militare a Lipsia. Tornato vivo dalla Germania, Raimondo sposò una ragazza del suo paese di cui mia nonna fu la testimone di nozze.

Il testimone di Raimondo, invece, non veniva del paese. Si chiamava Aldo Vivaldi, faceva il ferroviere a Genova e, prima della guerra, era uno degli atleti italiani più forti sui diecimila metri. Lo allenava Dorando Petri, il celebre maratoneta che perse l’oro olimpico per essere stato sorretto dal pubblico a pochi metri dal traguardo.

Ma arrivò la guerra e Aldo dovette smettere di correre per fare il carrista dell’esercito. Quando rifiutò di aderire alla Repubblica Sociale i tedeschi lo catturarono e Aldo finì a Lipsia, nella cella di Raimondo. Pesavano quaranta chili, avevano il tifo e ogni giorno rischiavano di morire per la fame, le malattie, le punizioni.

Se usciamo vivi di qui, ci facciamo da testimoni di nozze” si promisero i due soldati durante un terribile anno di prigionia.

Per tener fede a quel giuramento, Aldo partì da Genova verso un paesino del Veneto che distava due giorni di viaggio. L’ultimo tratto di 15 km, da Feltre, si doveva fare a piedi. Ma Aldo non si scoraggiò per così poco.

Come in una commedia americana, Anna e Aldo si incontrarono alla cerimonia, si piacquero e per un po’ si scrissero a distanza, imparando a conoscersi solo attraverso le loro lettere. Si sposarono a Lamon, con Raimondo a far loro da testimone e poi vennero a vivere a Genova. Ebbero due figli e due nipoti.  

Mia nonna è tornata a Lamon ogni estate. Prima con Aldo, che se n’è andato troppo presto per colpa del cuore, poi con il resto della famiglia, i miei genitori, noi nipoti, mio zio.

Ci è tornata anche quest’estate, per l’ultima volta.

L’abbiamo seppellita a San Pietro, anche se non ce l’aveva chiesto espressamente, perché nessuno voleva parlare del momento che pure incombeva. Per noi la nonna era immortale, invincibile. Ma ci è bastato sentirla usare soltanto il dialetto lamonese, negli ultimi giorni di vita, come se la sua vecchia lingua di bambina tornasse fuori mentre la vita finiva.

Se ancora ci restavano dei dubbi, sono svaniti quando, pochi giorni prima di morire, ci ha indicato fuori dalla finestra una collina con una rocca fortificata e ha detto: “Che bella, sembra il monte Coppolo”.

Adesso riposa proprio sotto il monte Coppolo e la Vallazza, al sole e tra i fiori, lontana dal grigio ospedale in cui era costretta. Il grigio ospedale in cui persino gli infermieri si sono stupiti, perché a salutare Anna non andavano solo i due figli – sempre presenti, tutti i giorni – ma una sequela di parenti, amici, conoscenti.  

Negli anni tante persone si sono affezionate a lei che non ha mai ceduto al tempo che passava, che è rimasta sempre giovane nella testa, viva, acuta, presente. Veniva da un piccolo paese, ma restava aperta al mondo e ne accettava le diversità. Faceva la maglia e intanto ascoltava gli approfondimenti per radio, leggeva libri, si informava su tutto.

A 88 anni, quando è uscito il mio romanzo, Anna l’ha letto cinque, sei volte. Voleva tenere sempre la storia ben chiara in testa. “Parchè son vecia e me scord’…'” diceva in dialetto. E subito dopo, in italiano, dava la colpa “all’orrida vecchiezza”.

È venuta ad assistere a presentazioni e premi legati al mio libro, non solo a Genova ma anche a Torino, a Cuneo, in Riviera. Lei, che non amava uscire, si sforzava di seguirmi per essere partecipe dei miei momenti di gioia.

Negli ultimi mesi mia nonna ha provato a rimettersi in piedi, con coraggio, parlando poco, senza mai lamentarsi. Come fa la gente del suo paese. Ci ha provato per noi, anche se era stufa di non poter più vivere alla sua maniera e fare le cose che amava: leggere, essere indipendente, fare la maglia, cucinare. 

“Ho avuto una vita lunga, un marito che mi ha amato, due figli eccezionali, due nipoti bravissimi. Che posso desiderare di più? È tempo di andare, non ho paura della morte” mi ha detto passeggiando nei corridoi dell’ospedale.

Di una cosa, invece, aveva paura: non tornare più tra le sue montagne, al cortile in cui era cresciuta, alle visite di parenti e amici che si fermavano a prendere il caffè da lei. Sì, perché a mia nonna piaceva molto il caffè e c’era sempre un’occasione buona per prepararlo, offrirlo, condividerlo. Passavo a casa sua e metteva su la caffettiera, tirava fuori le tazze e chiedeva di raccontarle le novità.

Quando ha capito che non sarebbe più uscita dal grigio ospedale, ha detto una cosa, parlando al telefono con una cara amica: “Però com’erano buoni, quei caffè”.

Sì nonna, erano buoni e ci mancheranno.

Ci mancherai.

Ma penseremo alla collina assolata tra le montagne, dove sei tornata ora, e quel dolore, piano, andrà via.

 

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