(ritratto di Christiaan Barnard di Benito Prieto Coussent, free copyright)
È la sera del 3 Dicembre 1967 quando, a Città del Capo, un incidente d’auto cambia la storia della medicina e dell’umanità.
Nello scontro automobilistico perde la vita la signora Myrtle Ann Darvall e anche sua figlia Denise, una ragazza di soli 25 anni, seppure soccorsa versa in condizioni gravissime: a causa delle ferite riportate Denise è in “coma depassé”, una condizione di morte a tutti gli effetti: mancano i segni di attività nervosa, non c’è risposta a stimoli esterni, la respirazione di Denise è possibile solo con le macchine.
Ma il suo cuore batte ancora.
È quel cuore che interessa a Christiaan Neethling Barnard, talentuoso chirurgo sudafricano di 45 anni.
Il cuore di Denise gli serve per tentare qualcosa che non è mai osato prima: impiantarlo in un altro essere umano.
“Trapiantarlo”.
Gli studi sui trapianti sono in corso da tempo, in particolare negli Stati Uniti, dove Barnard ha conosciuto il celebre chirurgo cardiotoracico di Stanford Norman Shumway, uno degli uomini più indiziati a compiere per primo quell’intervento che diversi nel medici pianificano e preparano.
In URSS Barnard ha conosciuto anche Vladimir Demikhov, considerato il primo trapiantologo, un medico discusso che a partire dagli anni 30 ha già sperimentato trapianti di cuori e altri organi, perfino teste, sui cani.
Il trapianto di cuore umano, però, è un azzardo ben diverso e ha una serie di limiti etici e legali: la morte cerebrale, nel 1967, non è stata ancora codificata legalmente, non esistono criteri certi per decretarla.
Nel 1967 la presenza di un cuore in grado di battere (anche se mantenuto attivo con le macchine) è ancora considerato un pieno indizio di vita. Per questo motivo l’asportazione da un corpo di un cuore che batte, anche se per donarlo a un altro essere umano potrebbe, eticamente e legalmente, essere un omicidio.
Inoltre, sebbene l’intervento di trapianto non sia considerato impossibile, la chirurgia non ha ancor raggiunto certezze sul suo esito e sulla sicurezza per il ricevente.
Ma Christiaan Barnard è un uomo spregiudicato e disposto a precorrere i tempi pur di realizzare la sua impresa e, soprattutto, pur di farlo per primo. Ed è certo che la condizione di coma depassè sia, a tutti gli effetti, una morte della persona.
“Un individuo è il suo cervello, non il suo cuore”.
Così il chirurgo ottiene dal suo ospedale l’accordo di essere avvisato quando arrivi un caso di coma depassè.
In queste sera di Dicembre, quando viene ricoverata la giovane Denise Darvall il chirurgo capisce che il momento di provare è arrivato, Barnard non avvisa il direttore dell’ospedale di Groote-Schuur di Città del Capo dove lavora, decidendo di informarlo solo a cose fatte.
In fondo lui sta solo applicando una nuova tecnica cardiochirurgica per salvare un paziente.
Il medico ottiene dal padre di Denise l’autorizzazione all’espianto del cuore e decide di tentare di impiantarlo nella persona da salvare. Louis Washkansky è un droghiere in condizioni gravissime, già vittima di 3 infarti, che ha reni e fegato pressoché fuori uso.
Lui è il candidato perfetto, disposto a farlo.
“Per un uomo che sta morendo non è una decisione difficile, accettare il trapianto, perché sa di essere alla fine. Se un leone ti bracca sino alla riva di un fiume infestato di coccodrilli, tu ti butti nel fiume, convinto di avere una possibilità di nuotare. Ma non correresti il rischio, senza quel leone”.
50 minuti dopo la mezzanotte del 3 dicembre 1967 in due stanze attigue vengono messi Denise Darvall e Louis Washkansky,
Prima Barnard prepara l’uomo, attaccandolo alle macchine.
Poi, alle 2.20 di notte, chiede a suo fratello Marius, anche lui chirurgo, di staccare le macchine che tengono in vita Denise. Il cuore della ragazza, dopo 12 minuti, si ferma.
Barnard lo estrae e lo porta nella sala operatoria in cui si trova Washkansky, cui asporta la parte inferiore di cuore, per sostituirla con quella di Denise.
Lavora sull’uomo per oltre tre ore insieme a un’equipe di 30 persone.
“Cristo, funzionerà” dice Barnard alla fine dell’intervento.
Alle 5.52 – quando ritiene che tutto sia pronto – usa il defibrillatore per dare il primo battito al nuovo cuore di Washkansky.
Dopo 2 giorni il droghiere si mette a sedere e parla.
Dopo 12 giorni si alza in piedi.
Ma, nel giro di poche ore, inizia a stare male, per una polmonite.
Qui Barnard e la sua equipe commettono un errore: convinti che si tratti di una forma rigetto non somministrano i necessari antibiotici e Washkansky peggiora rapidamente, morendo.
Ma la strada aperta e Barnard non tarda a percorrerla, certo che il trapianto sia una delle opzioni mediche alla cura delle cardiopatie più gravi.
“Continuai a fare trapianti perché ero e sono convinto – dichiarerà – che l’obiettivo della medicina non è prolungare la vita, ma migliorare la qualità della stessa”.
Solo un mese dopo, il 2 gennaio, ci riprova con un dentista di 59 anni cui trapianta il cuore di un uomo nero, destando scalpore in un paese di apartheid. Il dentista riesce a vivere un anno e mezzo con tanto di foto al mare, nuotando. Una foto discussa, secondo i critici scattata nonostante le condizioni di malessere del paziente. Eppure quei mesi di vita dimostrano che si può arrivare a ridare una speranza a un essere umano con il cuore di un altro.
Per anni i trapianti hanno elevata mortalità nei riceventi e non garantiscono con frequenza lunghe aspettative di vita, perché mancano farmaci adatti a evitare il rigetto.
Dei primi 10 pazienti trapiantati da Barnard, 4 non superano l’anno di vita, 4 vivono più di un anno, uno per 13 e un altro arriverà a 23 anni.
Gli interventi hanno però un effetto etico decisivo spingendo la medicina a elaborare l’innovativo concetto di morte cerebrale e codificarne le caratteristiche.
Sarà proprio il dottor Shumway, “bruciato” sul tempo da Barnard per il primo trapianto, a realizzare la necessità di superare i farmaci tradizionali aprendo la via all’utilizzo della ciclosporina che riuscirà a combattere gli effetti del rigetto.
Dopo l’intervento Barnard diventa una celebrità mediatica mondiale.
“Il sabato ero un medico del Sudafrica ben poco noto. Il Lunedì ero conosciuto in tutto il mondo”.
Incontra il presidente degli Stati Uniti e il Papa, la sua vita diventa leggendaria, fatta di viaggi, conferenze, fama, libri best seller, 3 matrimoni di cui 2 con donne giovanissime rispetto a lui, 6 figli.
Nel 1983 smette di operare per via degli effetti di un’artrite reumatoide ma, secondo molti, in realtà a causa di una perdita di reale interesse per la chirurgia. Prima di morire a Cipro per un attacco di asma, si lancia in pionieristiche ricerche sull’età e le possibili cure dell’invecchiamento, convinto che la qualità della vita sia un aspetto centrale della medicina. Spregiudicato sino alla fine, si imbarca anche in percorsi discutibili con le case farmaceutiche per farmaci anti-aging che ne minano la credibilità, ma non l’impatto sulla storia umana di un medico che ha affrontato per primo l’ignoto, ridisegnando il confine tra la vita e la morte.
O forse, ancora di più, tra la non-vita e la non-morte.
“La vita è proprio strana. Ti mette in mano carte che puoi leggere solo dopo averle giocate. O solo dopo che altri le giocano per te”.
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Io sono Riccardo Gazzaniga.
Il mio ultimo romanzo si chiama “In forma di essere umano” e racconta la fuga e la cattura di Adolf Eichmann, responsabile dell’Ufficio Affari Ebraici del Reich e fra i più attivi collaboratori di Reinhard Heydrich a opera del Mossad israeliano; ho cercato di mettere insieme il thriller, la Storia, la non – fiction per raccontare come accadde che gli uomini divennero mostri.
Per chi fosse interessato a questo tema, notizie ulteriori si trovano qui.