Ho visto “The fabelmans” e l’ho trovato un grande film.
Forse in alcune parti troppo autoindulgente?
Forse, laddove il protagonista Sammy Steven è, in tutto e per tutto, un personaggio completamente positivo.
Però è uno Spielberg che rinuncia a trama ed effetti e conigli dal cilindro per raccontare una saga di famiglia spoglia di eccessi ma ricca di emozione e quella che sembra una sincerità di fondo, dal punto di vista del suo alter ego Sammy.
(Per chi ama i dettagli, in rete si trovano facilmente quali fatti siano direttamente ispirati alla vita del regista e quelli più frutto di adattamento narrativo).
Riesce a farlo con un film che dura due ore e mezza eppure è eccezionalmente scorrevole, ti porta come una macchina su cui Sali e ti metti comodo per guardare fuori e goderti il viaggio. A tratti anche godibile e ironico. Per raccontare la formazione di uno che avrebbe diretto “Duel”, “Lo squalo”, “Jurassic Park”, “Salvate il soldato Ryan” va nella direzione opposta e non usa alcun fuoco d’artificio.
Non ci sono incredibili epifanie e tutto quanto vediamo potrebbe essere già stato raccontato in tanti altri film americani: un rapporto di coppia incrinato, un uomo troppo focalizzato sul lavoro, una donna che ha sepolto una parte di sé che però vuole risorgere, i figli che subiscono scelte non loro e devono riadattarsi e cercano di farsene una ragione, il bullismo scolastico, il prezzo del sogno americano di crescere sempre, lavorare di più, guadagnare di più. E un ragazzo con un dono che è anche una condanna.
Ciononostante nessuno di questi elementi, che pure è già visto, risulta già visto: è la magia del cinema all’opera o forse dell’arte in sé. Quella per cui non importa se la storia che narri è già stata, in qualche forma, raccontata.
Conta COME la racconti.
Eppure ciò che più mi ha rapito del film, oltre la vicenda familiare e oltre quello che giustamente viene definito un atto d’amore verso il cinema e la sua magia che Spielberg aveva già fatto anche in 8millimetri, ma la riflessione sull’arte intesa come un misto di dono e dannazione.
Per dirla con Springsteen “with every wish, there comes a curse”.
E infatti a mio avviso il cuore del film sta nel singolo incontro che Sammy- Steven ha con il pro-zio Boris, un uomo che ha sacrificato la vita all’arte e alla performance e che predice a Sammy che a lui toccherà lo stesso: non essere compreso, amare qualcosa al di sopra anche dei suoi affetti più cari, tenere un animale dentro che chiede sempre di essere nutrito, anche nei momenti peggiori. Purtroppo in rete non trovo ancora il pezzo del loro dialogo, ma lo vorrei rivedere dieci volti perché mentre ascoltavo Boris mi sembrava che parlasse a me come a chiunque ha dedicato una parte grande della propria vita a un’arte.
La cinepresa di Sammy diventa un rifugio, un luogo dove il mondo può essere messo in ordine e interpretato come lui desidera, persino falsificato e mistificato, un territorio dove il ragazzo esile e bullizzato e che tende a stare nelle retrovie finisce per prendersi la scena, ma lo fa quasi senza volerlo, appunto, non cercando il plauso in quanto tale ma come conseguenza della sua passione del suo desiderio di fare cinema, di rapire le persone che sono davanti allo schermo come vuole rapirle chiunque racconta una storia in qualsiasi forma.
Mi pare significativo che in ogni scena in cui Sammy proietta qualcosa per gli altri, a eccezione di quando lo fa con la madre per rivelarle quanto ha scoperto di lei, rimane quasi nascosto vicino alla camera, presente eppure assente perché il film è lui, è un suo prodotto, ma è già qualcosa che appartiene agli altri e alle loro reazioni di fronte allo schermo.
È un film di Spielberg, dunque dire che il cast è eccellente fa un po’ sorridere (se non sei eccellente e non produci una prova da eccellente come potresti essere scelto in un film di Spielberg?).
Però Michelle Williams è sempre straordinaria e struggente. (Strano destino, quello di Dawson’s Creek, dove tutti i coprotagonisti hanno fatto grandi cose e proprio Dawson è rimasto Dawson).
Un film che rivedrei anche domani, cercando di scrivermi alcuni dialoghi e sperando di portarmi dietro la frase che la madre di Sammy gli lascia quasi come eredità: “Ogni rimorso è un’emozione sprecata”.
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Io sono Riccardo Gazzaniga scrivo romanzi, testi per ragazzi e podcast.
Il mio ultimo libro si chiama “In forma di essere umano” (Rizzoli) e lo trovi qui