È la mattina del 24 gennaio 1979, alle 6,35, quando Guido Rossa esce di casa per andare al lavoro. Abita in via Ischia, una strada tranquilla e stretta, sulle alture di Genova.
L’uomo si dirige da solo verso la sua Fiat 850, nonostante sia in grave pericolo.
Alla fabbrica dell’Italsider si è parlato di fornirgli una scorta formata da altri sindacalisti che lo andasse a prendere ogni mattina e lo accompagnasse in fabbrica.
«Non voglio far rischiare la vita ad altri» ha spiegato Guido, rifiutando l’offerta.
Lo Stato, dal canto suo, non gli ha fornito protezione, ma consigliato di comprarsi una pistola.
Tutti quanti, in qualche modo, hanno lasciato Guido Rossa da solo, di fronte alle minacce delle Brigate Rossa.
Rossa è diventato un obiettivo del terrorismo pochi mesi prima, il 25 Ottobre, quando ha compiuto la prima di una serie di scelte sofferte, dramamtiche, convinte.
Succede che Guido, con altri operai, trovi nello stabilimento Italsider alcuni volantini ripiegati con il logo terrorista della stella a cinque punte. In quel momento nota un collega, Franco Berardi, allontanarsi a bordo della bicicletta con cui si occupa delle consegne di documenti.
Guido decide di andare a consegnare i volantini delle Brigate rosse al Consiglio di fabbrica – l’organo direttivo degli operai di cui fa parte come sindacalista – ma mentre lo raggiunge su un davanzale nota altri volantini.
A questo punto il Consiglio di fabbrica decide di rivolgersi alla vigilanza interna per cercare Berardi dentro lo stabilimento.
Sono le quattro del pomeriggio quando l’operaio viene fermato e consegnato ai carabinieri. Berardi dice: «Mi dichiaro prigioniero politico».
I carabinieri forzano il suo armadietto e ci trovano volantini e liste di targhe di auto che potrebbero costituire obiettivi di azioni brigatiste, ma per procedere legalmente contro Berardi bisogna formalizzare per iscritto la denuncia.
I sindacalisti del Consiglio di fabbrica e i responsabili della vigilanza allo stabilimento seguono i militari in caserma, ma si pone un problema circa la firma della denuncia.
«Dovrebbero firmarla tutte le persone coinvolte. Perché sia più forte e per non esporre troppo nessuno al rischio di vendette» spiegano i carabinieri.
«E allora firmiamo tutti quanti insieme: gli operai dell’Italsider» rispondono i lavoratori.
«Non è possibile, per una denuncia. Ci servono le firme precise di persone identificabili.»
A questo punto il Consiglio di fabbrica rimane spiazzato, tentenna, si divide, non riesce a prendere una posizione compatta. Qualcuno ha paura di mettere il suo nome e cognome su quel foglio:  se le BR sono state capaci di uccidere Aldo Moro, firmare per denunicarle vuol dire rischiare la vita.   Ma c’è anche chi pensa che sia sbagliato tradire un altro operaio, anche se sostiene il terrorismo.
Solo una persona ha il coraggio di tenere la sua posizione.
«Firmo io» dice Guido Rossa.
L’ufficiale dei carabinieri è preoccupato: «Rossa, così lei rischia troppo».
«Sono consapevole di quello che faccio» insiste lui, e firma.
Un solo uomo, un singolo sindacalista si carica sulle spalle tutto il peso della scelta che dovrebbe appartenere a un’intera categoria di lavoratori.
Berardi viene mandato a processo e Rossa è, di nuovo, il solo a testimoniare a proposito dei volantini e del materiale ritrovato in fabbrica.
Solo sei giorni dopo l’arresto, Berardi viene condannato a quattro anni e sei mesi di carcere per la sua appartenenza alle BR.
A Genova, sui muri, appaiono alcune scritte – «Rossa spia», «Rossa delatore» –, segno che le Brigate rosse hanno accusato il colpo. Per la prima volta è un operaio, da dentro una fabbrica, a condannarle apertamente. Anzi, è un sindacalista che lotta per i diritti dei lavoratori, quegli stessi che le Brigate rosse sostengono di difendere con la violenza.
Tra i terroristi si accende una disputa tra chi vuole punirlo e chi chiede di risparmiarlo, perché operaio e sindacalista, ma prevale la linea della durezza: Rossa va colpito.
Così, quel 24 Gennaio, quando Guido esce di casa, non c’è nessuno che possa opporsi ai brigatisti che scendono da un furgone, armati.
«Guido Rossa» lo chiama nel silenzio, alle spalle, una voce che è già una sentenza.
Lui accelera e continua a camminare, raggiunge la macchina, la apre dal lato del passeggero e salta dentro.
Due uomini lo raggiungono e gli sparano quattro volte alle gambe, poi si allontanano, mentre lui urla dentro la macchina, ferito.
Ma il terrorista Riccardo Dura, torna indietro, sfonda il finestrino e lo finisce, sparandogli due volte al cuore.
La figlia di Guido, Sabina, quando esce di casa per andare a scuola passa vicino all’auto, ma non si accorge che il cadavere del suo papà è proprio lì dentro, rannicchiato sui sedili davanti.  A trovare Guido sarà uno spazzino.
Le Brigate rosse rivendicano l’omicidio e mentono per giustificare l’esecuzione dicendo che Guido ha avuto una «reazione ottusa». In realtà, lui non ha avuto il tempo di fare nulla.
La scelta omicida dei brigatisti, però, si ritorce contro di loro.
Lo stesso giorno dell’assassinio, a Genova i sindacati proclamano lo sciopero generale e ventimila persone vanno in piazza in un corteo silenzioso, incredulo per l’uccisione di un operaio, un uomo giusto, un sindacalista.

Ai funerali di Guido Rossa, sempre a Genova, una folla gigantesca di 250.000 persone fra gente comune, uomini delle istituzioni e lavoratori scendono in strada insieme al presidente della Repubblica Sandro Pertini, in lacrime, e ai segretari di tutti i partiti politici italiani. La gente urla «Fascisti e brigatisti non passerete mai, insieme a Guido Rossa ci sono gli operai» e «Le nostre idee non moriranno mai, Guido è vivo e lotta insieme a noi».


Sono tanti gli uomini e le donne delle fabbriche a opporsi a quel terrorismo che nei loro luoghi di lavoro ha trovato accoliti per anni. A dichiarare che le loro idee sono diverse da quelle dei terroristi, come ha fatto Guido, pagando con la vita.
Sandro Pertini in persona attacca frontalmente le Brigate rosse, parlando ai portuali genovesi che prima incerti, poi sempre più convinti, finiscono per applaudirlo.
La morte di Rossa genera un’ostilità insuperabile contro le BR e l’idea dei terroristi che la “punizione esemplare” contro Guido potesse servire a evitare altre denunce si rivela sbagliatissima. Al contrario, aumentano, alcuni brigatisti si pentono, crescono gli arresti.
Un anno dopo, a poche centinaia di metri, i carabinieri irrompono nell’appartamento di via Fracchia covo delle BR. Nel conflitto a fuoco muore anche Riccardo Dura, l’uomo che aveva sparato a Rossa.
Tre anni dopo, nel 1981, l’arresto del capo delle BR, Mario Moretti, organizzatore del sequestro di Aldo Moro, segna l’inizio della fine del gruppo terroristico.
La scelta di Guido Rossa di marcare la differenza tra il mondo dei lavoratori e il terrorismo risulta un momento decisivo della storia italiana, in cui lo Stato smette di combattere a solo, ma trova l’appoggio dei suoi lavoratori.
«È nello spazio che separa la classe operaia dallo Stato che il terrorismo si insinua. Dobbiamo riempire questo spazio» diceva sempre Guido Rossa, parlando al plurale.
Ma è stato lui, da singolo uomo, a colmarlo per primo.

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Un grazie a quanti, mesi fa, sulla mia pagina Facebook, mi consigliarono a gran voce di inserire nel mio futuro libro il Presidente.
Avevate ragione.
Questa storia , qui in forma ridotta, è inserita nel mio libro “Come fiori che rompono l’asfalto – Venti storie di coraggio” edito da Rizzoli e uscito nel Settembre 2020.
Si trova in tutte le librerie fisiche e negli store digitali.


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