Vincitore di un Golden Globe e di tre Oscar, “Moonlight” racconta la durissima crescita e formazione di Chiron, un bambino e poi ragazzo e poi uomo nato nella periferia più popolare e degradata della calda Miami.
Il film è diviso in tre atti che sono le tre fasi della crescita di Chiron, seguendone la progressiva e dolorosa trasformazione.
Non a caso il protagonista assume tre nomi, nel corso della vicenda, come cambiasse pelle e destino ogni volta: si chiama “Piccolo” da bambino gracile e silenzioso, “Chiron” quando è ragazzo e cerca (invano) di essere davvero sé stesso, respinto da un ambienta machista, violento, brutale, degradato e infine “Black”, quando decide di piegarsi a quell’ambiente e assumerne l’aspetto, anche fisico, nascondendosi dentro un corpo muscoloso e un sorriso dorato.
Ma il racconto è ellittico e taglia volutamente grosse e fondamentali fette di questa vicenda, taglia proprio i passaggi che sarebbero stati più “cinematografici”, preferendo puntare sull’intimità di Chiron, bimbo senza padre, che cresce sopportando gli svarioni di una madre tossica e con uno spacciatore “buono” e la sua compagna come unici punti di riferimento.
Mi è piaciuto, “Moonlight”, proprio tanto.
Mi è piaciuta la delicatezza del protagonista, fragile da tutti i punti di vista: economico, fisico, verbale. Smarrito in un mondo di duri e disperati, contro cui tenta una reazione impossibile, opponendosi all’odio per i diversi. Una reazione che, però, finisce per risucchiarlo dentro quel sistema di valori e di vita che odia.
Mi è piaciuta la scelta di andare in sottrazione, evitando le parti narrative più scontate e prevedibili, in particolare i passaggi violenti che cambiano il destino dei protagonisti, per lasciar intuire la violenza. La percepiamo dalle parole, la vediamo nei segni che lascia addosso ai personaggi, interiori ed esteriori.
Un gruppo di attori davvero convincenti, tutti quanti, con in cima un memorabile Mahershala Ali, il Remy Denton di House of Cards, primo attore musulmano a vincere l’Oscar grazie a questo film, come migliore attore non protagonista. Ali interpreta lo spacciatore cubano Juan, con la corazza di muscoli, l’atteggiamento, la macchina, lo slang da criminale, ma l’etica di un giusto, che cerca di trasmettere quello che può al bimbo capitato per caso sulla sua strada.
Un film toccante, che racconta degrado e violenza senza esibirli in modo ostentato, che parla di morte intesa non solo come fine della vita, ma come fine di sogni o possibilità, che fa riflettere sull’inevitabilità del destino di chi nasce dalla parte sbagliata della vita.
Eppure “Moonlight” lascia uno spiraglio aperto alla speranza o, almeno al sogno, di un riscatto.
Un film che ti rimane attaccato addosso, anche dopo i titoli di coda.